Ormai la politica, incapace di andare verso le persone in carne e ossa, preferisce celebrare i suoi riti nelle asettiche atmosfere di studi televisivi, ridotti sempre più ad immaginifici apparati scenografici dove politici e giornalisti istrionici e vanesi allestiscono soporiferi spettacoli ad uso di un pubblico che si vuole acefalo e compiacente.
La televisione così da luogo d’informazione che doveva essere si è trasformato nel luogo d’elezione di personaggi che eccellono nell’arte recitativa. I nostri politici all’incontro de visu con i cittadini preferiscono quello virtuale, in modo da non doversi misurare sul terreno del dialogo, che solo può aprire alla dimensione dell’empatia umana, e alla partecipazione critica. Gli stessi talk show di approfondimento sono stati concepiti come vetrina pubblicitaria per politici d’accatto interessati solo alla propria autopromozione e a vellicare nel pubblico le passioni più basse. Come se invece l’impegno politico non debba richiedere innanzitutto di trovare soluzioni idonee a risolvere i problemi della gente. A ben guardare ciò che la gente desidera è di poter vivere il quotidiano in modo più sereno, senza l’assillo che da un giorno all’altro possa piombare nella povertà più nera o nella malattia. I cittadini chiedono soprattutto lavoro sicuro, scuola e sanità efficienti, onestà nell’amministrare la cosa pubblica. Il compito che ci attende oggi è di spezzare il ciclo perverso di una fase storica come la nostra, che sta portando a rivolgimenti che non è esagerato definire epocali, e che vede la Lega Nord, un partito xenofobo e antimeridionalistico, forza centrale nel nuovo equilibrio politico che si è venuto a determinare in Italia. Ora sta a noi di inserirci in modo consapevole nel corso di dinamiche storiche rinnovate, e far sì che ogni atto di partecipazione politica promani da una volontà libera, svincolata da tutte le pastoie clientelari che inaridiscono le sue stesse fonti. Ci si deve aprire di più alla dimensione sociale, alla compartecipazione che ci veda attori e spettatori allo stesso tempo: solo muovendo da qui, entro questo spazio comunitario, ci riuscirà di essere i facitori del nostro destino. Non si può costruire una società aperta se poi si rifugge dal parteciparvi; è un mondo il nostro che ci costringe ad uscire dal bozzolo caldo del fatuo individualismo che ispira ancora le nostre azioni. Che lo si voglia o no, noi siamo continuamente rimodellati da ciò che gli altri fanno. Individuo e società non sono termini che si negano a vicenda; piuttosto l’un termine è legato all’altro in modo indissolubile e ne è il rimando, complementare e dialettico, che permette che la vita di ognuno di noi si svolga in un’ordinata convivenza civile. La politica è una delle dimensioni costitutive dell’essere umano. L’esistenza umana è una costruzione, un programma, una scelta. Solo così ci si sottrae al mondo della natura, all’immodificabile mondo dell’inorganico. L’uomo, come homo faber, si è creato il suo mondo, che è il mondo artefatto delle cose, e vi ci abita come suo signore. E qual è la condizione fondativa della sfera politica? Quella di poter essere ascoltati. Senza questa precondizione, lo spazio pubblico si fa deserto. E’ come voler parlare in un luogo in cui si è fatto il vuoto assoluto. Ancora oggi purtroppo succede che il cittadino, nonostante tutti gli istituti giuridici messi a sua tutela, faccia fatica a vedersi riconosciuti i diritti più elementari, o ad esercitarli senza limitazioni di sorta; sono spesso diritti affievoliti dalla resistenza di una burocrazia ottusa e cinica. La nostra è una democrazia incompiuta, che ha ridotto il cittadino al rango di suddito. Ormai ci troviamo a vivere in uno stato che quotidianamente abdica alle sue funzioni, in uno Stato che parla il linguaggio dell’impresa, del fare profitti azzerando i costi. Come se a tutti fosse concesso di sopravvivere in una società che si richiami ad un darwinismo sociale che ha fatto il suo tempo. Evidentemente qualcuno è convinto di vivere ancora in pieno Ottocento. E’ ora invece che si prenda atto che il Capitalismo così come è stato concepito in Italia va epurato da tutte le sue sovrastrutture arcaiche che ne fanno un sistema di organizzazione economica ancora fermo alla sua fase primordiale, a quella che Marx definì di accumulazione originaria, o primitiva, che dir si voglia, in cui lo Stato diventava il garante di forme di sfruttamento intensivo del lavoro e di espropriazione proditoria. Evasione fiscale, lavoro in nero, falsificazione dei bilanci aziendali, drenaggio di denaro pubblico a vantaggio di imprenditori malavitosi, sono tutti fenomeni che lo stato unitario si trascina dietro come suoi mali endemici.
Senza una forte passione politica che ci faccia sentire la partecipazione quasi come un dovere civico, è difficile che si possa venire a capo di una situazione ai limiti di una catastrofe sociale. Appunto trovo questa nostra iniziativa, tesa alla costruzione di un nuovo soggetto politico a Margherita di Savoia, un’esperienza suggestiva, carica di risonanze emotive che toccano l’umanità di ognuno di noi.
Credere in questo progetto è anche un modo per tentare di uscire dal clima di rassegnazione che incombe sulla gente del Sud, ormai sempre più convinta che la Politica sia diventata il luogo dove, svanita la linea di demarcazione che ancora permetteva di distinguere il lecito dall’illecito, i nostri rappresentanti possono dare il meglio di sé nell’arte di arraffare senza dover temere di pagarne il fio.
Purtroppo, a guardar la nostra storia dall'Unità ad oggi senza l'effetto distorcente di lenti ideologiche, non riusciremmo a sfuggire al senso di meraviglia che dà il vedere come certi episodi corruttivi ne diventano filo conduttore. Sapremmo comunque che l’Italia è figlia di un atto di corruzione, portato ad effetto da Garibaldi quale disegno della massoneria inglese, che gli mise nelle mani tre milioni di franchi, una somma, per quei tempi, ragguardevole, con cui corrompere i generali dell'esercito borbonico, e che Garibaldi andrebbe restituito alla sua vera dimensione, a quella di avventuriero prezzolato e asservito agli interessi inglesi, espressi dalla Gran Massoneria di mister Albert Pike e di lord Gladstone, che individuarono nel Piemonte di Casa Savoia il braccio armato per fare del Regno Delle Due Sicilie una propaggine del governo inglese. Alla luce di questo disegno massonico, la Spedizione dei Mille va così ridotto a puro fatto banditesco, a vergognoso atto di spoliazione di uno Stato indipendente e pacifico. Nata su queste basi, l'Italia ingloba così dentro di sè il germe della corruzione, che sarà poi il marcatore genetico della nostra vita politica. Se questo è l'elemento che ci connota, come si può pensare di prendere seriamente gli uomini che ci governano? Come credere che uomini così infami, sempre intenti a brigare contro lo stesso Stato che amministrano, possano muovere da passione civile anche quando si tratta di prendere decisioni fondamentali per la vita del Paese?
E’ di questi giorni la dichiarazione del ministro Sacconi secondo cui in Italia la maggior parte delle imprese opera in ispregio alle leggi vigenti in materia di lavoro, sottraendo alla fiscalità diretta e indiretta cospicue somme di denaro.
In uno Stato in cui i “professionisti della politica” hanno come unica preoccupazione quella di assicurarsi posti di potere che ne facciano dei ras a cui sia consentito di violare ogni principio di legalità, è facile poi che anche in chi è chiamato a tutelare gli interessi dello Stato si diffonda la convinzione che venir meno ai propri doveri sociali sia il modo più efficace per garantirsi prestigio e ricchezza, e i gravi fatti di corruzione che hanno interessato i massimi esponenti della Protezione Civile ne sono la riprova più stringente.
Il caso Scajola diventa così emblema e sintesi di un modo di pensare ormai ben radicato fra coloro che detengono le leve del potere. Il fatto è che gli stessi normali cittadini, che ne sono le vittime designate, di fronte a comportamenti a così alto contenuto criminogeno, hanno come sviluppato una sorta di virus dell’apatia che li rende indifferenti a tutte le questioni che vadano al di là del loro immediato tornaconto personale. Come se poi il fatto che un uomo politico sia disonesto non riguardasse anche ognuno di noi.
Purtroppo fa parte un po’ del carattere degli italiani di lasciarsi incantare dal primo pifferaio che prometta loro il paradiso in terra, e di non provare ripulsa morale anche quando questi poi si riveli un autentico farabutto. Solo da noi può succedere che le più alte cariche dello Stato e della stessa Chiesa cattolica pensino che l’esercizio del potere li debba rendere ipso facto non assoggettabili alla legge penale. Tanto che come presi da un delirio di onnipotenza, sono convinti che i crimini da loro posti in essere siano da degradarsi a semplici violazioni di precetti morali: come se invece la morale non fosse un fatto residuale rispetto al diritto; nel senso che quella acquista valore laddove questo non faccia sentire la sua forza cogente.
La morale come sistema di valori inerisce invece a quei comportamenti sociali che non abbiano rilevanza giuridica. Ed è nel campo dell’ethos appunto che il concetto di moralità può trovare la sua più alta esplicazione, dove le singole persone assumono la moralità stessa come criterio del loro corretto agire sociale. Questi comportamenti una volta introiettati tendono a standardizzarsi fino a diventare carattere di un popolo e a condizionare le sue stesse strutture mentali. Visto in questa ottica il popolo nonché essere morto elemento costitutivo di uno Stato, è anche, per così dire, il suo spirito vivente, che si alimenta delle forze del passato e dei cambiamenti del presente. Ecco perché non è necessariamente contraddittorio affermare che ci possono essere Stati con più popoli, quando questi ultimi siano identificati con dei caratteri propri, quali i dialetti, le tradizioni, i canti popolari, il modo di vivere la religione, ed altri ancora, tutti riconducibili a quell’unico elemento culturale che antropologi ed etnologi designano come “stile di vita” od anche costume. Sono considerazioni queste che devono portarci a riflettere sul fatto che a volte avere una lingua comune può non essere sufficiente per far sentire i cittadini di uno Stato come appartenenti ad un’unica Nazione. Tant’è che da parte di alcuni sociologi si è parlato di nazione spontanea con riferimento a gruppi sociali ristretti, i quali si trovano ad abitare lo stesso ambiente fisico e a condividere elementi storico-culturali ed esperienze quotidiane comuni. Sulla base di questi presupposti, è facile arguire che il concetto di “Stato Nazionale” si riveli espressione carica di rimandi ideologici. Si è potuto così asserire che la funzione dell’idea di Nazione sia quella di creare e mantenere un comportamento di fedeltà dei cittadini verso lo Stato, capace di coinvolgere anche la sfera più intima della loro personalità.
Questo diventa tanto più vero quanto più si forza il corso della storia dei popoli per adeguarlo a una linea di pensiero sviluppata al di fuori del reale movimento della loro vita. E l’Italia è nata con questo vizio originario, tanto che non c’è periodo della nostra storia unitaria che non abbia risentito delle tensioni sociali che ha prodotto la forzata convivenza tra, ad esempio, piemontesi e pugliesi, piuttosto che tra lombardi e siciliani. A parte la lingua, che in Italia è una costruzione relativamente recente, che cosa accomuna un trentino ad un barese? Io penso ben poco, o niente. Forse molto verosimilmente un trentino si sentirà molto più vicino (non solo fisicamente) ad un austriaco o ad un tedesco.
Vide ben Carlo Cattaneo quando, rispondendo al Ferrari, suo amico, così si esprimeva: “Se il fine è l’unità degli Italiani, io mi rifiuto di credere che tale unità possa attuarsi con il metodo della ‘fusione’, lasciando che un solo Stato, il Piemonte, eserciti una funzione egemonica su tutti gli altri Stati”. Egli non si stancò mai di sottolineare che il risultato unitario avrebbe compromesso la libertà dei cittadini, poiché si sarebbe agito contro la loro volontà. Cattaneo, poi, era convinto che sotto i Savoia le condizioni di vita degli italiani sarebbero peggiorate. E che Cattaneo disprezzasse i Savoia lo testimonia anche Mazzini in una sua lettera: “…Cattaneo mi rimprovera di aver tradito la causa della Repubblica, …ma lui odia il Piemonte monarchico più della stessa Austria”.
A Crispi che criticava il suo progetto federalista, così ribatteva nel 1860: “La mia formula è Stati Uniti d’Italia, o se volete Regni Uniti; l’idra di molte teste che fanno però una bestia sola. Per essere amici bisogna che ognuno resti padrone in casa sua. I siciliani potranno fare un gran beneficio all’Italia dando all’annessione il vero senso della parola, che non è assorbimento.” E aggiungeva: ‘L’Italia non può diventare Piemontese.’
Il federalismo che Cattaneo auspica non è certamente il decentramento regionale così come previsto dalla nostra Costituzione, che si è rivelato, tra l’altro, un moltiplicatore di centri di spesa, piuttosto prevede la costruzione di uno Stato federale che abbia a proprio fondamento la volontà di tutti i cittadini, espressione della sovranità popolare, la quale decide così sulla costituzione degli stati-membri, e del relativo patto federativo, in cui si precisano i diritti di tutte le parti nella formazione di un Congresso nazionale. Comunque Cattaneo, che era oltretutto un uomo di scienza, criticò sempre aspramente la retorica patriottarda degli unitaristi alla Mazzini, e si guardò bene dall’esprimere giudizi negativi nei confronti dei Borboni, che non erano affatto il male assoluto, come certa storiografia agiografica ha voluto far credere. Anzi, tutt’altro.
Angelo Insogna, storico, nell’introduzione alla sua biografia su Francesco II, nel tratteggiare un po’ la storia del Sud, e la sconfitta degli austriaci ad opera della Spagna di Filippo, così introduce la figura di Carlo III:
“Era a capo di questo esercito (spagnolo) l’infante Don Carlo Sebastiano, primogenito della regina Elisabetta Farnese e dello stesso Filippo; il quale don Carlo, chiamato prima alle corone granducale e ducale di Toscana e Parma, ora si sentiva dire dalla madre essergli destinata ancora quella delle Due Sicilie ‘le quali alzate a regno libero sarebbero sue’ – così conchiudeva la sua lettera questa gloriosa donna: “Va dunque e vinci; la più bella corona d’Italia attende che tu la cinga.”
Contava don Carlo 17 anni: aveva ingegno svegliato, senno assai più dell’età: sentimento altissimo di giustizia, e amore intenso per i suoi soggetti; e poi cortesia nei modi, magnificenza nel portamento.”
E ancora.
“Il 15 giugno del 1734 un decreto di Re Filippo restituiva l’indipendenza alle Due Sicilie, riunite in Regno libero, sotto lo scettro di Carlo per la grazia di Dio Re Delle Due Sicilie, Duca di Parma, Piacenza e Castro, Gran Principe ereditario di Toscana.
Ed è ammirevole che il nuovo re, disegnando egli stesso le Armi del Regno e della sua Casa, vi unisse i gigli d’oro della casa di Francia, ed ai sei di azzurro della Casa Farnese, le Armi nazionali delle Due Sicilie, e cioè il Cavallo Sfrenato, vecchia assisa di Napoli, e la Trinacria per la Sicilia.”
…“Quando nel duomo di Palermo cinse la corona del nostro regno, giurò di mantenere i diritti del popolo… e il governo di Carlo precedette di mezzo secolo i lumi e il benessere promesso in Francia e non mantenuto dalla sua grande rivoluzione, e mentre nel restante di Europa era gara feconda di lotte sanguinose tra principi, re Carlo ad altro non mirava che a rendere florido il suo regno.
Basti il rammentare che coi tesori recati seco, e con quelli caricati sopra sei galee che ancor più tardi gli rimise la madre non solo sollevò grandi miserie, ma fece costruire qui in Napoli la via Marina, il real palazzo di Portici, quello di Capodimonte, il Teatro S. Carlo, l’Albergo dei poveri; e poi magnifici ponti in più luoghi, uno dei quali sul Volturno, e strade molte e stupende, le quali servivano tanto ad allacciare le province quanto all’opera più grandiosa della bonifica delle terre.
Ora questo monarca, la cui opera, continuata dai suoi successori, portò il reame a vedere in 125 anni più che raddoppiata la sua popolazione, e a essere il giardino più bello e più civile dell’universo; che distrusse il Santo Uffizio alla sordina introdotto dal Cardinale Spinelli, che introdusse l’arte della seta, che fondò in Capodimonte la fabbrica delle famose maioliche, che disseppelli Pompei ed Ercolano, e trasse qui quei tesori d’arte che gli vennero dalla materna eredità di Casa Farnese, onde fondò e dotò un Museo che non ha altro uguale in tutto il mondo.”
Non vorrei che questo richiamo ai Borboni passasse per passatismo demodé, perché esso muove piuttosto dall’esigenza di ristabilire una verità storica volutamente offuscata da certa retorica risorgimentale, interessata a far passare il messaggio di un Regno delle Due Sicilie arretrato e negatore di ogni libertà. E anche un modo questo per interrogarsi su che cosa è stato effettivamente il brigantaggio.
Che il brigantaggio nella sua fase iniziale non sia stato un fenomeno di banditismo e sia da ricondursi piuttosto a fatto di insorgenza di popolo contro un invasore straniero è questione assodata pare anche da quegli storici e da quei politici che hanno visto nell’Unità d’Italia un fatto positivo.
Dice Michele Magno, deputato del P.C.I., in un suo saggio sulla Capitanata, “con la fuga dei Borboni da Napoli e l’avvento della dittatura di Garibaldi ci furono nella Capitanata sollevazioni un po’ dappertutto, fino ad assumere la portata di una vera e propria “guerra del proletariato con il galantuomo creduto oppressore”. ““Ma l’illusione che il nuovo regime dovesse rendere loro giustizia, se pure vi fu, non durò molto tempo, per cui il movimento ben presto divenne reazionario e borbonico.
Insorsero Apricena, San Marco La Catola, Peschici, Carpino, Vico, Foggia, San Marco in Lamis, Casal Trinità, Cagnano Varano, Vieste, Monte Sant’Angelo, San Severo e tanti altri comuni ancora.
A Foggia i tumulti furono originati dal continuo perlustrare per le vie della città di pattuglie di poliziotti piemontesi a cavallo; per sedarli fu necessario l’impiego per più giorni di interi reparti militari.
A San Marco in Lamis la scintilla venne, il 7 ottobre, da alcuni ragazzi raccoltisi in piazza per inneggiare a Francesco II. Migliaia di uomini e donne (cinquemila secondo un rapporto dell’allora comando militare di Carpino), si portarono al centro per dare sfogo al loro odio nei confronti dei galantuomini e manifestare attaccamento ai Borboni. La folla distruggeva stemmi sabaudi, ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, e percorreva in corteo le vie del paese, con un quadro raffigurante la Regina madre.
A Casal Trinità (Trinitapoli) il pomeriggio del 6 ottobre, giunta la falsa notizia del ritorno a Napoli del Borbone, uomini, donne e ragazzi si riversarono festanti al centro del paese, ove li raggiunsero presto tutti i contadini sparsi nelle campagne vicine per la vendemmia: La folla si portò di via in via gridando “Viva Francesco II”, e malmenando chiunque portasse la coccarda tricolore.
A Biccari la ribellione scoppiò la sera del 14 ottobre, quando alcuni soldati borbonici sbandati e numerosi popolani, nei pressi della fontana pubblica, improvvisarono una dimostrazione a favore di Francesco II. Una pattuglia della guardia nazionale tentò di disperdere i manifestanti, ma la folla si riversò in piazza con “scuri, fucili, spiedi e mazze” e si diede alla vendetta, che durò tutta la notte””.
Alla luce di questi fatti, il Plebiscito ‘imposto’ ai meridionali per fare l’Italia Una non può riguardarsi che come atto di imperio piemontese.
Sarebbe ora che qualcuno ricordasse ai leghisti che, prima che si arrivi al federalismo, da loro tanto agognato, i Meridionali vanno risarciti degli incalcolabili danni economici che 150 anni di storia unitaria hanno procurato loro.