giovedì 26 dicembre 2024   ::  
 La bustina suddista    

La bustina suddista

La bustina suddista (con due "d"!) è la rubrica di Antonio Bianco.            

Antonio Bianco nasce a Baselice in provincia di Benevento. Giornalista professionista e attento meridionalista si laurea in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. È stato cofondatore e direttore responsabile di “Orizzonti nuovi” organo dell’Italia dei Valori. È stato redattore in testate locali e ha collaborato con testate nazionali. Ha pubblicato i volumi “Modernizzazione e arretratezza in una comunità del Sannio”, "Il brigante Secola" e "Pane e Lavoro". Dopo un periodo di lavoro presso la storica testata di Paese Sera, attualmente lavora presso la testata de il Messaggero.it 

   
 Stampa   
 PANE E LAVORO    

PANE E LAVORO

"Nel Sud del dopoguerra, il 14 aprile 1957, alcune popolazioni dell’entroterra campano stanche di una vita di stenti e di miseria organizzano, con il supporto della Cgil e del Pci,  la cosiddetta "Marcia per il lavoro" o "Marcia della fame", che nell’intenzioni degli organizzatori sarebbe dovuta giungere, passando per Benevento, a Roma.

I dimostranti, partiti da San Bartolomeo in Galdo, non arriveranno mai a destinazione poiché caricati e dispersi dalle forze dell’ordine a circa 30 km dalla partenza.

Un episodio poco conosciuto nella storiografia delle lotte sindacali e contadine, ma che oggi viene riportato alla luce grazie al nuovo libro del giornalista Antonio Bianco.

Pane e Lavoro (edizioni Youcanprint) racconta in quaranta pagine la storia di Francesco, attivista politico-sindacale, che insieme ad altri suoi compaesani, partecipa attivamente all’organizzazione della Marcia del 1957. Le intenzioni dei manifestanti sono quelle di arrivare sotto Montecitorio per far conoscere al governo Segni le condizioni in cui vivono le popolazioni del Fortore. Ma il tragico epilogo della marcia porterà Francesco a fare la scelta più difficile della sua vita. "

WWW.LALTROSUD.IT

 

   
 Stampa   
 L'INGANNO DELLA REGIONE CAMPANIA    

L'INGANNO DELLA REGIONE CAMPANIA

di Antonio Bianco

 Era attesa da tempo, soprattutto dalle aree interne della Campania, dove negli ultimi vent’anni c’è stato un proliferare di pale eoliche. La giunta regionale della Campania ha approvato nei giorni scorsi la delibera 533 (con annesso allegato) sui cosiddetti Siti non idonei.

Un passaggio legislativo che regolamenta l’installazione eolico in aree che presentano vulnerabilità ambientali e rischio idrogeologico. Non solo, ma anche in zone individuate come beni paesaggistici (vedi i siti di interessi comunitario), in quelle di protezione speciale (Important bird area), in parchi regionali e riserve naturali. Ed infine in aree sottoposte a vincoli archeologici e di pregio agricolo.

Tuttavia, non tutti sono convinti della bontà della delibera. “Entrando nel merito notiamo – spiega Pinuccio Fappiano, portavoce del Fronte sannita della difesa della montagna – che nell’individuazione dei siti non idonei in realtà sono siti 'parzialmente non idonei’, in quanto uno dei parametri di limitazione è dato dalla potenza delle macchine per cui su alcune aree è comunque possibile installare eolico”. Il portavoce si riferisce al fatto che la delibera disciplina solo le torri eoliche superiori a 20 kw, mentre quelle sotto tale limite – il cosiddetto minieolico –, possono essere installate senza limitazioni e vincoli.

Inoltre, – sempre secondo Fappiano – è stata aggirata il decreto ministeriale del 2010 che prevede una distanza di 50 volte l’altezza della pala (circa 8 chilometri) dai confini dei parchi e dalle aree vincolate dalla legge Galasso, che in alcuni casi è stata ridotta tra i 500 e 1.600 metri.

E ancora, non sono state previste le distanze rispetto ai confini regionali, provinciali e comunali, e quelle ai confini delle aree protette dall’Unione europea, che tutte le altre regioni italiane hanno posto in mille metri.

Dunque, a rischio impatto ambientale sarebbero sorgenti, fiumi, torrenti, e montagne oltre i 1.200 metri dove sarà possibile installare pale eoliche fino a 6,5 metri (come una casa di 2 piani).

Nel frattempo, gli impianti già autorizzati ed ancora non cantierati che fine faranno? Nello specifico dice testualmente la delibera: “Gli impianti già in esercizio ovvero autorizzati e in costruzione prima dell’entrata in vigore delle presenti disposizioni, al termine della vita utile degli stessi, qualora ricadano in aree individuate non idonee, devono essere invece smantellati. In tal caso, sono consentite solo attività di manutenzione ordinaria".

In parole povere significa che tutti gli impianti già autorizzati, ma ricadenti nei Siti non idonei o su pascoli permanenti gravati da usi civici, potranno essere costruiti e solo dopo 30 anni (scadenza naturale della concessione) dovranno essere smantellati.

“Appare chiaro – conclude Fappiano – il disegno secondo cui la Regione Campania non ha nessuna intenzione di salvaguardare i territori dalle speculazioni, anzi eludendo anche i vincoli esistenti. Per questo motivo abbiamo già predisposto appositi ricorsi alla Unione europea per la violazione delle norme comunitarie e al ministero dell’Ambiente al fine di far rispettare le rispettive leggi eluse da palazzo Santa Lucia”.

www.laltrosud.it

laltrosud@laltrosud.it

   
 Stampa   
 IL PIL DEL SUD E' LA META' DEL NORD    

IL PIL DEL SUD E' LA META' DEL NORD 

di Antonio Bianco

  A pochi mesi dall’allarme lanciato dallo Svimez (“Il pil del Sud peggio di quello della Grecia”) arrivano i nuovi dati Istat sulla ricchezza nelle diverse aeree del Paese. Che ancora una volta registrano come la forbice Nord-Sud continui ad allargarsi.

Nel Meridione il pil pro capite nel 2014 è stato di 17,6mila euro, quasi la metà di quello del nordovest (32,5mila) e del nordest (31,4mila). Una differenza del 43,7% rispetto a quello delle regioni settentrionali. Era del 43,2% nel 2013.

Sempre nel 2014 il Pil in volume ha segnato a livello nazionale una flessione dello 0,4% rispetto all’anno precedente. La sola area del centro ha registrato un incremento (+0,4%), mentre nelle altre ripartizioni il Pil è in calo, più marcato nel Mezzogiorno (-1,1%), seguito dal Nord-ovest (-0,8%) e dal Nord-est (-0,2%).

Le difficoltà indotte dalla crisi, tuttavia, non hanno toccato con la stessa intensità le diverse aree del paese. Nel periodo in esame, il reddito disponibile ha segnato un andamento meno sfavorevole nelle regioni meridionali, con una diminuzione dello 0,5% tra il 2008 e il 2014. In alcune regioni del Sud, il reddito ha evidenziato una dinamica positiva, con incrementi di rilievo in Puglia (+1,6%), in Sicilia (+0,9%) e in Sardegna (+2,8%). Marcata è stata, invece, la riduzione nelle regioni settentrionali (-2,8% nel Nord-ovest, -2,6% nel Nord-est): in quest’area i cali più significativi si registrano in Liguria e Piemonte (rispettivamente -4,2% e -4,4%), mentre solo la Provincia Autonoma di Bolzano segna un incremento del reddito disponibile nominale (+2,9%) nel periodo considerato.
Insomma, luci e ombre, aspettando il famigerato Masterpan di Renzi.

   
 Stampa   
 LE POLITICHE DI AUSTERITA' LE PAGA IL SUD    

LE POLITICHE DI AUSTERITA' LE PAGA IL SUD

di Antonio Bianco

Un Sud messo in ginocchio dalla spending review all’italiana. E non c’è governo nazionale che tenga. Così a pagare il conto delle politiche di austerità sono soprattutto le regioni meridionali.

A dirlo non è qualche nostalgico neoborbonico, ma l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno.
Secondo le ultime elaborazioni Svimez, infatti, anche quest’anno la scure che si abbatterà sulla spesa pubblica meridionale (in percentuale sul Pil) sarà il doppio di quella del centro-nord: il 6,2% contro il 2,9%.

Non solo. Anche i tagli alla spesa in conto capitale non andranno di pari passo: il 2,1% in meno per i meridionali e l’0,8% per gli abitanti al di là del Tronto. Difatti, negli ultimi anni il ministero dell’Economia ha saputo ben indirizzare le sue sforbiciate: il Sud ha subìto riduzioni da due a tre volte in più rispetto al centro-nord: rispettivamente -1,6% e -0,5% nel 2013 e 1,9% e 0,7% nel 2014.

Non va meglio nel lungo periodo. In dieci anni, dal 2001 al 2012, al Sud la spesa in conto capitale è scesa del 58%, passando da 16,5 a 6,9 miliardi di euro. Al centro-nord invece è calata del 10%, passando da 3,7 a 3,3 miliardi di euro.
In soldoni significa che i 791 euro attribuiti a ogni meridionale nel 2001 dopo undici anni sono diventati 334. Quasi la metà. Mentre i 99 euro destinati pro capite alle aree sottoutilizzate del centro-nord sono scesi appena a 85. 

“Sotto l’etichetta della spending review si sono nascosti una serie di tagli che, soprattutto con riferimento alle spese in conto capitale, hanno esercitato un effetto depressivo sull’economia dell’area, amplificando i divari regionali”, si legge nello studio Spending review e divari regionali in Italia che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista Economia Pubblica-The Italian Journal of Public Economics.

E come se non bastasse sulle ustioni l’acqua bollente. A dare un altro colpo alla già disastrata economia meridionale ci pensal’austerità: nel 2015 il 9,5% del Pil al Sud contro 6% del centro-nord. Sempre secondo le stime Svimez le manovre effettuate dal 2010 ad oggi dai vari Governi (il cui valore complessivo arriva a oltre 109 miliardi di euro nel 2014) sono pesate più nel Mezzogiorno rispetto al centro-nord.

Nello specifico il peso delle manovre sul Pil per il 2013 sono assai differenti a livello territoriale: 5,5% nelle regioni centro-settentrionali e 7,8% in quelle meridionali. Stesse dinamiche negli anni successivi: per il 2014 l’impatto è risultato del 5,9% al centro-nord e dell’8,7% al Sud. E cresce ancora nel 2015, arrivando al 6,8% a livello nazionale. Ma se al centro-nord il peso si ferma al 6%, al Sud sale fino al 9,5%.

Per non parlare poi del sostegno alle imprese. Nel settore pubblico allargato - che comprende Pa ma anche colossi quali Enel, Eni, Poste italiane, Ferrovie dello Stato - la quota totale è calata dal 36,5% del 2001 al 30,2% del 2012.
E proprio nel 2012 le spese d’investimento delle aziende pubbliche nel Mezzogiorno erano pari a 215 euro pro capite, contro i 318 del centro-nord. Nel caso delle imprese pubbliche locali lo scarto era ancora più ampio: rispettivamente 62 e 188 euro.

“Sono gli effetti di una spending review all’italiana, poco definita e poco realizzata, che non ha interessato effettivi sprechi bensì un crollo generalizzato di investimenti pubblici e di incentivi alle imprese”, chiosa l’associazione.

Un crollo che rischia però di travolgere l’intero Sud.

   
 Stampa   
 LO SBLOCCA TRIVELLE TRA PROTESTE E CENSURE    

LO SBLOCCA TRIVELLE TRA PROTESTE E CENSURE

di Antonio Bianco  

La parola d’ordine è una sola: avanti tutta con le trivelle. E a indicare la road map è stato il presidente del Consiglio Renzi: “Raddoppiare la percentuale di petrolio e del gas in Italia”. L’Italia già oggi è il quarto produttore europeo e il terzo per quanto riguarda le riserve di oro nero. Il bacino più importante si concentra in Basilicata, la Val d’Agri da sola produce l’82 per cento del petrolio nazionale e risulta essere il più grande giacimento d’Europa. Ma quanti sono attualmente i pozzi attivi nel nostro Paese? Secondo il ministero dello Sviluppo economico sono oltre mille – tra terraferma e mare – e forniscono il 10 per cento del fabbisogno di gas e il 7 per cento di petrolio. Mentre, i permessi per la ricerca di idrocarburi, ossia i titoli che consentono le indagini geofisiche e perforazioni, in attesa di risposta sono 112, distribuiti da nord al sud. L’accelerazione in tema di ricerca di petrolio e gas, tuttavia, è arrivata nei giorni scorsi con l’approvazione definitiva al Senato del decreto Sblocca Italia, subito ribattezzato Sblocca Trivelle. Così a finire sul banco degli imputati è stato proprio l’ex sindaco di Firenze, accusato dagli ambientalisti di aver offerto un assist incredibile alle multinazionali petrolifere, che non dovranno avere più l’ok delle Regioni (la cosiddetta valutazione di impatto ambientale) per bucare mari e colline.L’obiettivo dell’esecutivo, in effetti, non solo è eliminare l’opposizione degli enti locali, ma velocizzare l’iter per le autorizzazioni: d’ora in poi ci saranno i titoli minerari unici (sia per la ricerca, sia per l’estrazione ma ritenuti da più parti contrari al diritto comunitario), verranno rilasciati in appena 180 giorni e le concessioni potranno durare 30 anni, prorogabili più volte per un periodo di dieci anni. E a decidere dove e quando trivellare sarà - con proprio decreto - il ministro dello Sviluppo economico, e non importa se ciò provocherà delle variazione negli "strumenti urbanistici".
Ad essere contestato è soprattutto l’articolo 38 del decreto (Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali): “Al fine di valorizzare le risorse energetiche nazionali e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti del Paese, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”.Con questa norma la ricerca e l’estrazione di petrolio vengono di fatto militarizzati. Rese inaccessibili a comitati e popolazioni che si oppongono alle trivelle. Tutto viene sacrificato in nome dei supremi interessi nazionali e della realpolitik del Tony Blair italiano. D’ora in poi, dunque, la palla passa allo stato centrale, che ha deciso di fare del Bel Paese una vera e propria gruviera, dimenticando i passi avanti fatti in tema di tecnologie rinnovabili. Ora il timore è che le coste siciliane e quelle dell’Adriatico – come molte realtà dell’Appennino, in primis la Basilicata – diventino il Texas d’Italia, con conseguenze negative su turismo e attività economiche. Poco importa se diverse Regioni e moltissimi Comuni si oppongono a questa scellerata politica fossile. Poco importano le proteste di decine di migliaia di persone che hanno detto chiaramente che il mare è dei cittadini e non dei petrolieri, che vogliono sfruttarlo solo per ricavarne profitti”, attacca Greenpeace dal blog de ilfattoquotidiano.it.
Ma il governo va avanti come un treno che non si ferma davanti a nessuno ostacolo, nemmeno quando a mettersi di traverso sono gli enti locali o le popolazioni organizzati in “comitatini” (il copyright è di Renzi), che temono per l’inquinamento delle proprie terre con conseguente rischio per la salute. E la risposta dei comitati (anche se censurata dai media nazionali) è arrivata nei giorni scorsi da Potenza, dove circa cinquemila No triv hanno assediato pacificamente la sede della Regione Basilicata per protestare contro il raddoppio delle estrazioni petrolifere. La Lucania – dove si trivella da più di vent’anni – è interessata da 18 richieste di permessi di ricerca, 11 permessi e 20 concessioni di coltivazione di idrocarburi per quasi i 3/4 del territorio.
E non bastano le confutazioni economiche (la Basilicata è tra le regioni più povere d’Italia e con le royalties più basse del mondo) a fermare il governo Renzi, che invece si appella alla Strategia energetica nazionale, secondo cui la corsa all’oro nero porterà un investimento di 15 miliardi di euro di investimento e di 25 mila nuovi posti di lavoro. Ma per gli ambientalisti sono solo promesse per tenere buoni i territori. “Altro che innovazione e premier rottamatore – controbattono – la storia è sempre la stessa: in pochi si arricchiscono sulle spalle dei cittadini e dell’ambiente”. Come dire: per gli interessi dei petrolieri si rottama anche il territorio.


 

   
 Stampa   
 IL NUOVO LIBRO DI ANTONIO BIANCO    

Il brigante Secola

La sanguinosa rivolta nel Fortore post-unitario. Edizioni "Il Chiostro".

Questa è la storia di un brigante “per caso”: Antonio Secola, muratore del Fortore, area geografica montana della Campania, al confine con Puglia e Molise.

Secola si trova coinvolto, suo malgrado, nella violenta e cruenta vicenda del brigantaggio meridionale nell’Italia post-unitaria. I briganti, agli ordini di Michele Caruso, imperversano nella zona. Secola, scappato dal carcere di Campobasso, dov’era rinchiuso per un furto commesso per sfamare la sua famiglia, si fa brigante e ben presto conquista la fiducia dei suoi compagni e del comandante Caruso, tanto da diventare il suo luogotenente.

L’esercito piemontese, intanto, reprime ferocemente le rivolte, vere o presunte, dei briganti e quando Secola si rende conto che l’epilogo è vicino si consegna e confessa; avrà così salva la vita, ma sarà recluso fino alla fine dei suoi giorni nel penitenziario di Portolongone (Isola d’Elba).

La piccola storia di un uomo che, come tanti, viene travolto dagli eventi; ma sono gli uomini come Secola i veri protagonisti della storia. La “grande storia”, quella raccontata dai vincitori, sovrasta e dimentica le ragioni dei vinti; per questo molto ancora andrebbe indagato, per capire le ragioni delle vicende di cui ancora oggi subiamo le conseguenze.

visita il sito
http://www.edizioni-ilchiostro.it/

   
 Stampa   
      

IL FEDERALISMO E GLI INSEGNANTI IN CAMICIA VERDE

Incredibile ma vero. Mentre continua a tagliare fondi alla ricerca e alla università, la Gelmini trova la copertura finanziaria per l’insegnamento del federalismo ai dirigenti degli enti locali. Infatti, se da un lato la ministra, con i suoi provvedimenti, cerca di espellere gli insegnanti meridionali dalle scuole del nord, dall’altro riesce a recuperare dieci milioni di euro per questa ennesima beffa ai danni dei cittadini del sud. Due milioni l’anno per cinque anni. È scritto, nero su bianco, nel testo della riforma che porta il suo nome. Si legge infatti all’articolo 28 della legge, che questi soldi serviranno “per concedere contributi per il finanziamento di iniziative di studio, ricerca e formazione sviluppate da università”. Ciò in vista “delle nuove responsabilità connesse all’applicazione del federalismo fiscale”.
Naturalmente tutto ciò è a carico di tutti i contribuenti e senza un concorso pubblico per accedere ai fondi. E naturalmente a decidere chi, come e quando si dovrà dedicare a questa nuova grande disciplina sarà lei. La Mariastella. Ma una domanda sorge spontanea: non è che a insegnare questa nuova materia saranno docenti in camicia verde?
 
28/02/2011
   
 Stampa   
 FEDERALISMO SI...O NO?    

FEDERALISMO SI...O NO?

Federalismo sì, federalismo no. Ma poi è certo che la Lega lo voglia veramente? Prima ha parlato di federalismo fiscale, poi demaniale e ora di quello municipale. Sta di fatto che in due anni e mezzo di governo Berlusconi del federalismo nemmeno l’ombra. Eppure è l’obiettivo principale dei bossiani. Allora ci si domanda: perché non lo si è incassato quando in parlamento c’era una maggioranza bulgara? E come mai se ne riparla proprio oggi quando Berlusconi è sommerso da scandali sessuali e il governo rischia seriamente di cadere?
La Lega si sa, sin da quando è scesa in campo ha sempre giocato su slogan da dare in pasto al proprio elettorato. Prima la secessione, poi il federalismo. Come dire: il popolo del nord ha bisogno di credere in qualcosa. Slogan, appunto. Mentre sta di fatto che proprio con questo stato centralizzato il settentrione ha sempre assorbito, come dimostrano vari studi, la maggior parte delle ricchezze nazionali. Il drenaggio dei fondi dal sud al nord è cosa antica. E allora una nuova domanda sorge spontanea. Ma conviene veramente ai leghisti il federalismo? Conviene perdere tutti quei privilegi conquistati con l’unità nazionale?

L’unica tassa realmente federalista, l’Ici, è stata smantellata proprio dal governo leghista-tremontiano. Ora si toglie ai comuni anche la gestione dei rifiuti. In diciassette anni cosa ha portato a casa Bossi in termini di autonomia? Nulla. L’unica riforma è stata quella del titolo del centrosinistra che ha dato più poteri alle Regioni. Stop. Eppure la Lega ha governato per intere legislature, ma del federalismo niente. O meglio l’unica forma di federalismo che interessa Bossi è l’occupazione sistematica di enti e istituzioni pubblici del nord, pagati con i soldi di «Roma ladrona», soldi di tutti, leghisti e non.

22/01/2011

   
 Stampa   
 MENO CONSUMI, PIU' VOLTAGABBANA    

MENO CONSUMI, PIU' VOLTAGABBANA

Il Sud, la crisi e Tremonti

Per una volta il Sud non è solo tra le aree più colpite dalla crisi. C’è anche il Centro, e un po’ di Nord. A guidare, infatti, la classifica nella riduzione dei consumi ci sono le famiglie marchigiane (-8,1%), mentre quelle campane sono al terzo posto (-6,8%), appena dietro alle calabresi (-7,7%). E intanto che il governo a trazione leghista continua ad aumentare la pressione fiscale, i risultati emersi nei giorni scorsi da un’analisi dell’Ufficio studi degli artigiani di Mestre mostrano quanto hanno stretto la cinghia i cittadini in questa fase di recessione economica.

Negli ultimi tre anni le famiglie italiane hanno ridotto i consumi per un importo pari a 17,6 miliardi di euro, cioè del 5,2%. A livello territoriale, poi, i dati complessivi mostrano che la contrazione più forte si è avuta proprio in Campania, con 2,82 miliardi di euro. Ma a seguire c’è proprio la Lombardia, con meno 2,64 miliardi.
E se il mago della finanza creativa Tremonti si ostina a tagliare sugli investimenti (con la scusa di contenere il debito pubblico che nel frattempo è salito al 121 per cento), non ci vuole molto a capire che, in una situazione di crisi internazionale, le sue politiche economiche invece di stimolare la domanda hanno portato l’intero Paese tra gli ultimi in Europa in fatto di crescita, con un conseguente aumento della disoccupazione soprattutto nel Sud della Penisola .
Tuttavia, nonostante il disastro economico - le rivelazioni di questi giorni parlano di un crescente indebitamento delle stesse famiglie meridionali e della concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone - la papera è rimasta a galla grazie al voto di qualche voltagabbana di turno.
   
 Stampa   
      

FITTO E IL PAINO PER IL SUD

Il ministro Fitto l’aveva annunciato in pompa magna la settimana scorsa a «Ballarò»: per il Sud un piano da 100 miliardi di euro. E dopo qualche giorno il governo Berlusconi vara il decreto del non-c’è-nulla-dentro. D’altra parte le elezioni anticipate si avvicinano e il Mezzogiorno, si sa, è un bacino di voti dove tutti vogliono attingere. Se poi il Cipe destina realmente il 99 per cento dei denari alle opere delle regioni del Nord, un po’ di propaganda non guasta mai. La forbice tra le due Italie continua ad allargarsi? non è un problema che riguarda il Bossi di turno. È il federalismo bellezza.
Addirittura per scippare fondi al Sud in «Padania»  si sono inventati anche una nebulosa «questione settentrionale». Però, intanto, a quegli sprovveduti dei meridionali gli facciamo credere che sono in arrivo un po’ d’infrastrutture per lo sviluppo, per il turismo, per la scuola e il dado è tratto. Dove prendiamo i soldi per finanziare questi investimenti? Non lo diciamo. È l’ennesimo gioco delle tre carte. Infatti dei 100 miliardi mago-Silvio ammette: «20 sono in programmazione e altri ottanta o non sono stati spesi o sono bloccati da mille rivoli». Insomma non si sanno che fine hanno fatto, ma Fitto, l’ultimo dei fedelissimi, non si scompone e imperturbabile dice: «Noi dobbiamo recuperare senso di responsabilità».
Certo, quel senso di responsabilità che se ne avesse un pochino lo porterebbe a dimettersi dal governo più antimeridionale degli ultimi sedici anni.
   
 Stampa   
 POMPEI, CRONACA DI...    

POMPEI, CRONACA DI UN CROLLO ANNUNCIATO

NAPOLI 16/09/2010. Dice il poeta Bondi: «Se come ministro avessi delle responsabilità mi sarei già dimesso. I crolli non sono stati causati da mancanza di fondi». Certo non tutte le responsabilità del crollo della Schola gladiatoria di Pompei sono sue, ma sta di fatto che il tracollo è avvenuto sotto la gestione del suo ministero (dei Beni culturali). Su questo non ci sono dubbi. Come non ci sono dubbi sulle sforbiciate che ha fatto alla cultura. Tra l’altro a parlare dei siti archeologici abbandonati, tra cui proprio Pompei, è stato proprio “L’espresso” del 14 ottobre scorso. Scriveva, un mese fa, l’autorevole settimanale: «Mentre gli investimenti per la manutenzione di musei, opere d’arte, scavi archeologici, biblioteche e archivi hanno subito tagli che superano il 30 per cento». Certo le immagini del crollo sono l’emblema di un Paese allo sfascio proprio nel settore dove dovremmo esse primi al mondo. E invece? Aggiunge il giornale: «Fino al caso limite di Pompei (…). Soldi non ce ne sono nemmeno qui. I turisti diminuiscono e molte zone dello scavo devono restare chiuse al pubblico».

Tuttavia, se per il capo dello Stato, Napolitano, le immagine del crollo «sono una vergogna», il leghista Zaia definisce Pompei «quattro calcinacci». Dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che il suo partito governa insieme al verseggiatore Bondi. Il quale, nel frattempo, continua a negare ogni responsabilità, dimenticando (anche lui?) che proprio secondo fonti del suo ministero i finanziamenti destinati ai lavori di restauro e manutenzione dei siti archeologici sono stati dimezzati negli ultimi tre anni. Eccoli. I fondi per i «beni storici-artistici» sono passati da 24.088.421 a 11.845.411 euro. Per i «beni architettonici» da 43.915.555 a 36.468.110 euro. Per «l’antichità» da 30.379.002 a 18.633.782 euro.

Ora però il sommo poeta promette di riparare i danni. Cioè si chiudono le stalle dopo che i buoi sono scappati. Dimenticavamo. Il titolo dell’articolo del periodico è “Cade a pezzi anche il Colosseo”. Ma a cadere a pezzi è stato invece una parte di Pompei. Ed è proprio il caso di dire: cronaca di un crollo annunciato.

   
 Stampa   
 LICENZIAMENTI DI STATO    

LICENZIAMENTI DI STATO

Comunità montana del Fortore: 17 licenziamenti di Stato di cui nessuno parla

BENEVENTO 5/11/2010. Apriamo questa rubrica con il racconto del dramma del lavoro. Della tragica vicenda dei diciassette dipendenti messi in mobilità dalla Comunità montana del Fortore, con sede a San Bartolomeo in Galdo, provincia di Benevento. Caso unico in Campania. E di cui nessuno parla. Diciassette famiglie da mesi senza stipendio nella realtà più povera della regione.
Eppure, i vertici della Comunità non hanno perso tempo a far recapitare all’inizio dell’anno la lettera della cosiddetta messa in disponibilità. La scelta si giustifica – secondo l’ente – con i tagli voluti dal governo centrale.  Senza soldi si riesce a malapena a coprire lo stipendio di soli 15 dipendenti su 32, per cui gli altri 17 si arrangino. L’elenco degli esuberi però è stato fatto in base ad una graduatoria che non tiene conto dell’età di queste persone, quasi tutti ancora giovani per la pensione ma vecchi per un nuovo lavoro.  L’assurdo è che l’ente ora pensa a una «nuova dotazione organica del personale». Ma come, non mancavano i finanziamenti?
Da parte loro i sindacati confederali (per una volta uniti) nei mesi scorsi hanno iniziato una serie di mobilitazioni  fino a giungere ad un tentativo di conciliazione presso l’Ufficio del lavoro del capoluogo sannita, al quale per ben due volte i vertici della Comunità non si sono presentati.
Dopo un lungo braccio di ferro si è arrivati a un accordo che prevede una sorta di “patto di solidarietà”: gli altri dipendenti rinunciano a una parte dello stipendio in favore dei colleghi messi in mobilità. Peccato che chi doveva solidarizzare non è stato mai interpellato, così ad oggi i diciassette impiegati sono ancora lì ad aspettare l’ottanta per cento dello loro stipendio, così come previsto dalla legge.
Situazione, quest’ultima, criticata anche dalla Cisl provinciale: «L’unica cosa – scrive in una nota – che la Comunità montana è stata capace di produrre è stata la messa in disponibilità, e quindi il licenziamento, di diciassette lavoratori ai quali, da mesi, viene negato il salario». Il sindacato ha anche inviato un esposto al ministro Brunetta e alla Corte dei conti. Arriveranno gli ispettori ad effettuare le verifiche contabili? Vedremo. Intanto la casta ha altro a cui pensare, anche quando a licenziare è lo Stato.   
   
 Stampa   
 Media    

MEDIA: I DISOCCUPATI DEL SUD SPARISCONO DALLE STATISTICHE

È scandaloso. Con un tocco di magia il Sud è sparito dalle cronache nazionali. Forse i dati sono talmente allarmanti che si preferisce non pubblicarli, ci si riferisce agli ultimi dell’Istat sulla disoccupazione. Uno ascolta, o legge sui giornali, il dato nazionale in attesa che poi sia scorporato per macro-aree. Nulla di tutto ciò. Tutti parlano di come sia aumentato la disoccupazione italiana, che ha raggiunto il 9,8 per cento, e nessuno ti spiega qual è il record raggiunto al Sud.

Allora con tanta pazienza ci mettiamo al computer e iniziamo una ricerca sul web. Qualcuno ne avrà pur parlato. Ci interessa capire la percentuale, almeno ufficiale, dei senza lavoro. Ma non succede nulla. Nessun giornale, nessun blogger, nessuno di nessuno si è chiesto quanti disoccupati ha il Sud. Soprattutto tra i giovani. Vero è che è il tempo della retorica unitarista. Cavolo, ma perfino i primi governi della destra storica, si preoccuparono di fare un’inchiesta sulle condizioni economiche (da loro stessi create) dei meridionali.

Oggi invece in ossequio al politica nordista del meno si parla del Sud meglio è, addirittura si fanno scomparire i dati Istat sulla disoccupazione. Ora, non è che i meridionali si aspettassero molto dai lombardi-bocconiani-padani del governo Monti, ma addirittura nascondere sotto il tappeto, la drammatica vicenda dei senza lavoro è veramente vergognoso

   
 Stampa   
Home :: Il Manifesto e le Nostre Idee :: Origini della Secessione Italiana :: Manifesto EFA per le elezioni europee 2019 :: L'identità meridionale :: I nostri impegni per il Sud :: La bustina suddista :: Comunicati stampa :: Video :: l'Altro Sud e l'Ambiente :: Hanno detto di Napoli :: Eventi ed Appuntamenti :: Forum :: Archivio Documenti :: Organizzazione e Contatti :: Tesseramento e Statuto :: Sostienici :: Elezioni Regionali 2010 - Comunali 2011 :: Elezioni Amministrative 2009
Copyright (c) 2007    ::   Condizioni d'Uso