La strada per il riscatto del Mezzogiorno
L'avanzare della globalizzazione neoliberista ha, da tempo, messo in crisi la politica in tutto il mondo. I nuovi centri di potere economici e finanziari globali stanno sempre più ridimensionando gli spazi delle politiche nazionali.
Negli stati, le economie, le politiche sociali ed ambientali sono state subordinate e condizionate da questo tipo di economia planetaria, poco propensa a riconoscere le diversità territoriali.
Gli Stati nazionali si dimostrano, oramai, troppo piccoli perché affrontino da soli le sfide della mondializzazione e troppo grandi per dare risposte valide alle domande d'identità, di comunità e di protagonismo che provengono dalla dimensione locale.
Ed è in quest'ambito che si sono attivati gruppi, movimenti e organizzazioni territoriali che rivendicano con forza un nuovo protagonismo politico, per rispondere agli effetti desocializzanti e omologanti indotti dal nuovo ordine mondiale e alla rappresentazione di uno stato dilaniato da una diffusa corruzione ed inerzia decisionale.
I partiti politici di massa, poi, che hanno pur assolto nel passato un importante compito d'integrazione sociale, di educazione popolare, d'inclusione nella democrazia di vaste fasce della popolazione, hanno oggi perso questa funzione, trasformandosi in "agenzie semipubbliche per l'organizzazione delle elezioni" gestite, così come nell'Ottocento, da gruppi di notabili.
La fine del cosiddetto "secolo breve" ha favorito la degenerazione dei partiti tradizionali e la loro massiccia occupazione delle istituzioni e dei media.
Nell'analisi del politologo Ralf Dahrendorf la sintesi di queste valutazioni: "I partiti di fatto non esistono più in quanto a partecipazione popolare, sottoscrizione, militanza. Anche nei paesi in cui, per tradizione, godevano di una base popolare ampia, questa sta rapidamente declinando". In pratica, permangono solo gli apparati autoreferenziali sempre più lontani dai contesti territoriali in cui operano e dalle loro comunità.
Mentre nel resto del mondo si affermano nuove forme di riorganizzazione locale, di competizione geoeconomica qui, nel nostro Paese, circolano ancora forme deteriori di un Meridionalismo che ha storicamente consegnato il Sud al suo interminabile declino.
La "Questione meridionale", oggi europea, rappresenta la gabbia delle iniziative e delle energie interne di un'intera comunità.
Il Sud che si sostiene è quello dei sussidi, delle leggi speciali per Napoli; è il Sud delle emergenze, dell'autodistruzione delle risorse ambientali, che perpetua lo status di area semicoloniale. Ai trasferimenti di fondi nazionali ed europei, corrisponde un deserto di libera iniziativa e di corruzione ambientale, un'antropologia politica fondata sullo scambio e sul servilismo. Le stesse istituzioni locali, pur rinnovate in parte dall'elezione diretta dei vertici, sono sfiancate da un'occupazione politica di clan e partiti, mirante a procacciare reddito e non certo a produrre servizi.
L'economia e la cultura politica meridionalista, attualmente, sono del tutto incapaci di trovare alternative e, rinchiuse nella morsa della partitocrazia nazionale, private dell'assistenzialismo di un tempo, sembrano camminare a ritroso nella storia.
Nel contempo, il crollo delle ideologie, delle meta-narrazioni, dei grandi miti organicistici e olistici dello Stato, con il declino della sua funzione di Raumordnung, hanno determinato mutamenti importanti che cambiano il contesto in cui si collocano le forme della rappresentanza e dell'esercizio diretto della democrazia.
Nuove forme d'identità, come quelle delle radici territoriali, dei legami di comunità, si affermano e si consolidano come fenomeni postindustriali, che decretano la fine delle solidarietà politiche tradizionali e dei loro codici simbolici, fondate su fratture di classe o di religione.
Mentre, dunque, tutte le forme partito sono in crisi, travolte dal crollo dei tradizionali spazi d'identità, per il Sud Italia, si pone l'esigenza di costruire "una nuova politica che non sia più la pedestre ripetizione dei miti più o meno incomprensibili o l'imposizione di movimenti nati nelle fertili terre del Nord al solo scopo di perpetuare le tradizionali ingiustizie, ma che consenta di organizzare una nuova classe dirigente del Mezzogiorno, che abbia la fierezza e l'orgoglio di lottare per il riscatto del nostro Paese…Soltanto un partito a base meridionale e in funzione univocamente meridionalista, potrà costituire lo strumento che permetta al Mezzogiorno di inserirsi in funzione nettamente autonoma nella lotta politica italiana e faccia fallire definitivamente la creazione di un compromesso antimeridionale...[G.Dorso]".
L'analisi dell'"Avellinese" pur se inserita in un contesto temporale e sociale diverso, è quanto mai attuale e sottolinea il fallimento dei partiti nazionali nell'affrontare i tanti problemi del Mezzogiorno e, quindi, la necessità di un superamento critico dell'unitarismo politico.
Attratti e subordinati dalle regioni forti e dominanti, i partiti italiani hanno sempre privilegiato, per il Sud, modelli assistenziali e clientelari, intercettando spesso i poteri criminali per controllare il territorio.
Solo la nascita di un soggetto politico che rappresenti il Sud nella dimensione unitaria e nelle sue peculiarità, sociali, economiche e culturali potrà avviare un processo di sviluppo e di rinascita morale, sovvertendo radicalmente la forma di rappresentanza politica delle Regioni Meridionali nelle istituzioni nazionali ed europee. Un momento, quest'ultimo, fondamentale per affrontare in modo innovativo l'attuale sviluppo democratico del nostro Paese, minato dal crollo del principio di legalità e del senso etico, dal ridursi della capacità rappresentativa democratica, dal rafforzarsi del legame tra grande criminalità e gruppi di potere politico e finanziario.
È, dunque, quella meridionale, una comunità intera che deve rimettersi in piedi. È il territorio come unità geografica e antropologica che deve farsi "comunità politica" in grado di difendere i propri valori, i propri beni, la propria memoria. Risollevarsi da sola. Interrogarsi sul proprio passato, organizzare il proprio futuro.
"Il Sud ha rinnegato la propria tradizione e l'ha assunta come una colpa salvo poi a reincontrarla sformata e prostituita di fronte all'immane raccolta di merci.Esso, oggi, si specchia in questa maschera scoprendosi solo come vizio, ma prima o poi dovrà ritrovare il profilo alto e austero di sé, dovrà cercare un radicamento nuovo ma non esterno alla propria storia. [F. Cassano]. "
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Il Sud non è una forma imperfetta del Nord
In genere, l'intellettuale del Sud, di fronte alla critica e alla continua interrogazione sul suo comportamento, sulla sua cultura e sul suo modo di pensare utilizza tecniche d'aggiramento: per sottrarsi alle difficoltà si dà alla celebrazione del suo passato evocando l'antica grandezza culturale del Mezzogiorno. Risponde, cioè, alle provocazioni circa la sua appartenenza alla forma mentis dominante nel Meridione, con una posizione vetero-umanistica: la nostra grande storia, la nostra grande civiltà….etc. Meno dotato culturalmente e più sguarnito l'uomo comune, quando rileva che le sue tradizioni, il suo modo di pensare, il suo essere cittadino meridionale sono considerati i responsabili veri della criminalità organizzata oltre che del sottosviluppo socioeconomico, reagisce quasi sempre con l'introiezione del giudizio di colpevolezza espresso sulla sua cultura e con l'adozione di atteggiamenti di subalternità rispetto ad un modello di modernità creatosi altrove.
Il risultato di tutto questo è l'affermarsi di una schizofrenia culturale nella quale emerge l'idea che interpreta il comune modo di sentire e di pensare degli abitanti del Sud come un impedimento, un'eredità culturale indegna, un fardello di cui disfarsi per correre con i dovuti requisiti tra le braccia della modernità realizzata da altri. Un'idea, insomma, che occorre abbandonare i vecchi e tenaci retaggi culturali per diventare, finalmente, dei bravi europei, dei bravi cloni moderni dei "parenti settentrionali". Ben diversa è la situazione se si parla d'arte, centri storici, monumenti e beni culturali. Nessuno si sognerebbe di "stroncare" quel grande patrimonio per trasformarlo in funzionali e modernissime strutture. Sia ben chiaro, non si tratta di salvaguardare folcloristiche sopravvivenze arcaiche eliminando ogni contaminazione modernista ma di lasciare le tradizioni con le loro connotazioni collettive alle naturali dinamiche del mondo attuale.
Bisogna evitare di continuare ad introdurre modelli altri con l'imposizione di standard che sradicano e annientano le identità con categorie e norme tratte da contesti culturali estranei.
I modelli efficientistici, produttivistici, utilitaristici del Nord industriale sono diventati criteri obbligati cui uniformarsi per potersi ritenere occidentali, europei, moderni, italiani. Occorre disfarsi delle proprie differenze, delle identità, scaricando i propri retaggi culturali e le sopravvivenze premoderne onde collocarsi senza sfasature nell'ottica trionfante del "pensiero unico". Ed è proprio qui che si è evidenziato l'effetto negativo, nell'ambito socioculturale, dei problemi del Mezzogiorno: la mitizzazione dei modelli culturali del Nord industrializzato.
Mitizzare vuol dire valutare tutto in positivo, escludendo e non rilevando le contraddizioni presenti nei modelli vincenti. Il nord occidentale dovrebbe prendere atto della propria aggressività e tentare di rispondere alle intolleranze degli altri controllando l'arrogante fondamentalismo della sua economia. Ma, invece, la colonizzazione illimitata del mondo avanza ad ogni latitudine, imponendo la conversione falsata di tutta l'umanità ad una sola religione: quella del più forte.
Il Sud, che finora era ritenuto incapace di pensare da solo, lentamente sta emergendo dalle ceneri del suo ethos premoderno con l'idea di un'autonomia forte cercando di pensare le relazioni e lo sviluppo a partire da sé, senza alcuna indulgenza per i propri vizi, ma pretendendo di valutarli iuxta propria principia e non con il giudizio d'altri. Basta, dunque, all'iperconformismo ai valori dominanti del Nord dei molti meridionalisti o presunti tali che pongono se stessi come modelli a tutti i meridionali.
Il Sud non è una forma imperfetta del Nord.
Il primo passo in questa direzione è certamente la critica a tutte le forme di deculturazione, un atto che si propone di rompere l'abitudine del Sud di guardarsi soltanto con gli occhi degli altri e che ha determinato l'espropriazione e la demolizione del sé.
Inoltre ritrovare l'orgoglio ed il significato della tradizione mediterranea del Mezzogiorno può offrire a tutta l'Europa, l'occasione per fermare la sua lenta agonia recuperando una via alternativa all'omologazione.
"La tradizione è una bellezza che noi conserviamo e non una serie di catene che ci leghino"(Ezra Pound).
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Un nuovo Sud protagonista di una nuova Storia
Il maggior pericolo che corre l’Italia in questo periodo storico è quello di non comprendere la necessità di risollevarsi a partire dal Mezzogiorno.
Il rischio maggiore per noi tutti e per il nostro futuro è di esser ciechi davanti all’evidenza che un nuovo Sud sta nascendo e che questo processo va sostenuto. C’è un Sud della gente onesta e perbene che sta provando con tutte le proprie forze ad uscire dal fango in cui è nata e vive.
La parte sana della società civile meridionale, stanca delle umiliazioni che continuamente subisce, stanca delle ingiustizie, della corruzione dilagante, della criminalità, dei soprusi, del veleno che respira, stanca di subire, sta cominciando con coraggio a farsi parte attiva. Comincia ad alzare la voce per far sentire la propria presenza, comincia ad alzare la testa facendosi protagonista di una nuova Storia.
Segnali inequivocabili di questa rivoluzione sono riposti in associazioni, gruppi ed individui che sempre più numerosi si propongono per un rinnovamento etico, morale, sociale, culturale e politico del Mezzogiorno d’Italia. Essi, ponendosi in prima fila nella lotta all’illegalità, alla criminalità, al particolarismo, alla corruzione ed al clientelismo si offrono come principali artefici del superamento di una condizione di storica arretratezza in cui le genti del Sud, schiavi del proprio destino, si trovano ingabbiate.
Il volto di quest’altro Sud è quello di quei giovani che non cedono alle lusinghe della criminalità. Quest’altro Sud ha il volto di quelle centinaia di migliaia di uomini e donne che sono spinti alla ricerca del lavoro al Nord o all’estero e si trovano privati della possibilità, che è un diritto naturale, di vivere la propria famiglia giorno per giorno. Quest’altro Sud è l'eccellenza intellettuale prodotta dalle Università meridionali. E’, inoltre, il Sud degli imprenditori di successo e non collusi che, in un ambiente in cui sono decuplicate le difficoltà operative, riescono comunque ad andare avanti ed in molti casi ad emergere ponendosi come modello e come protagonisti dell’economia meridionale.
Quest’altro Sud è il Sud che sta cercando con forza di sciogliersi dai lacci che da secoli lo legano ad ingiustizie, angherie ed occasioni mancate. E’ quel Sud che ha risorse inestimabili di energie da liberare e che sente che è arrivata l’ora di farlo.
Il Sud che vogliamo è quello in cui tutte queste forze siano finalmente libere di esprimersi. E’ un Mezzogiorno d’Italia libero dai vincoli che gli impone la criminalità organizzata, libero da una classe politica inefficiente, incompetente e troppo spesso compromessa con l’antistato, libera dalle occasioni perse, dalla povertà diffusa in sacche sempre più ampie della popolazione, dall’emarginazione, dal malessere e dalla delusione che sempre più spesso è stampata sui volti della sua gente.
Affinché questo Sud riesca nell’obiettivo di ribaltare gli esiti di una Storia di decadenza che ai più sembra già scritta è necessario che si organizzi politicamente. E’ necessario che si trasformi in soggetto politico per rinnovare le Istituzioni portando in esse le proprie idee, i propri bisogni, i suoi uomini e le sue donne.
E’ necessario, oggi più che mai, che quest’altro Sud si doti di un partito che ne costituisca la casa comune ed offra una comune base programmatica per lottare uniti ed organizzati verso un futuro che restituisca al cittadino meridionale la dignità da sempre calpestata.
Gaetano Pietropaolo
L'irresistibile forza delle radici
L'appartenenza mediterranea diventa strumento di resistenza
Se fosse possibile bloccare per qualche istante la nostra esistenza e poterla osservare con attenzione, così come si fa con un quadro posto su una parete libera da altri oggetti, forse ci accorgeremmo in quale diabolica spirale si svolge la nostra vita.
L'idea dell'illimitata fattibilità della natura e dell'uomo, che celebra se stessa come una liberazione dalla prigione dei vincoli naturali, scopre con terrore di aver delegittimato ogni limite, di essere una macchina lanciata a folle velocità senza freni.
Invalidando la politica, ormai, asservita in modo esclusivo al "padrone" di turno e, dove, i concetti di destra e sinistra rimangono solo come etichette di facciata, la nuova religione, quella degli economisti, esalta con i suoi rituali ossessivi l'homo currens. I sacerdoti del profitto, della competizione c'invitano ad un'irrefrenabile corsa, all'inseguimento della rapidissima evoluzione tecnologica e commerciale, nella quale l'individuo, ormai alienato, deve trovare una forma di adattamento e dove si fa produttore in sé e fuori di sé di dis-valori: complicità, sudditanza, menefreghismo, illegalità, intolleranza.
L'uomo, modello nordoccidentale, insomma, è travolto dalla "dismisura oceanica" dell'economia, che ha fatto di esso cera da modellare secondo forme volute. Andare sempre avanti, proiettare la propria esistenza "nell'orizzonte dell'infinito (Nietzsche)", verso la dispersione degli oceani, tagliando ogni radice, ogni appartenenza, ed annientarsi nell'eccesso del non limite.
Il "Superuomo" che naviga senza fermarsi, senza pausa, diviene un pirata, colui che non appartiene più a nessuna terra, dove il ritorno sarebbe un fallimento, un ravvedimento.
In questo contesto, in questo continuo vagare senza meta, dunque, la marginalità sociale, l'ingiustizia, il dolore, la manipolazione della natura assumono il significato di un inevitabile destino.
Eppure, la possibilità per sottrarsi a tutto questo esiste. Il "luogo segreto della Misura", cioè dell'accordo tra uomo e natura, nel quale è possibile fondare la resistenza, dove la natura umana è parte di una natura più grande, c'è: il Mediterraneo. E' qui che il Sud, ritrovando la sua appartenenza, si erge contro la propria condizione, si erge contro lo stato, non in quanto tale, ma in quanto esecutore del poter altrui.
"L'eterna Rivolta" della nostra identità diventa forma d'esistenza, diviene norma dell'essere.
Il Mezzogiorno, tradito e soggiogato, ha saputo, comunque, conservare in sé il fuoco della rinascita: l'idea di non arrendersi, di non adeguarsi del tutto alle ideologie massificanti. Una ricchezza immensa quella del Sud e del Mediterraneo che politici ed amministratori meschini ed inetti non hanno voluto né saputo valorizzare, smarrendo e svuotando territori, città, intere generazioni. Creando una dipendenza che è stata non solo politica, ma anche personale ed intellettuale.
La "nuova primavera" del Sud che noi portiamo avanti con determinazione, come già sostenuto, parte dal recupero di questi valori ed, oggi, raccogliendo ampi consensi, mira sempre più a selezionare una nuova classe dirigente, una élite di uomini e donne irreprensibili e preparate, non insudiciate dalle faide politiche nostrane, e pronte a guidare con lealtà e rigore il nostro popolo verso l'affermazione dignitosa della propria esistenza.
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Identità e Regioni
Negli ultimi anni, specie dopo l'accresciuto grado d'integrazione europea, il processo di "regionalizzazione", inteso come criterio di organizzazione degli interessi e delle volontà politiche su base territoriale, si è notevolmente rafforzato, condizionando non poco l'Unione europea.
Molte scelte di fondo e molte direttive comunitarie sono state indirizzate verso la valorizzazione delle identità regionali e lo sviluppo delle istituzioni collegate.
Partendo dall'Atto unico europeo e con l'avvio delle politiche strutturali, le regioni hanno assunto un ruolo rilevante. Con il trattato di Maastricht del febbraio 1992, che stabilì che "il cammino dell'Europa passa per le regioni", s'istituì come organo dell'Unione il "Comitato delle Regioni", conferendo ai governi substatali ampio riconoscimento e si affermò che i governi nazionali non erano più i soli rappresentanti degli interessi europei.
Inoltre, la modifica dell'art. 146 del Trattato dell'Unione sancì che i rappresentanti di enti substatali, almeno quelli che avevano piena potestà legislativa, potevano partecipare di diritto al Consiglio dei Ministri nelle questioni d'interesse regionale.
Emerge, dunque, in questo processo di protagonismo e impegno regionale, la "relativizzazione" degli stati-nazione, che non sono più sentiti come "un dato di natura, ma come una costruzione artificiale frutto di un movimento storico europeo".
La mobilitazione regionale, alle ragioni di natura storica, culturale e politica ha aggiunto sempre più quelle di natura economica e sociale, puntando fortemente verso processi di cooperazione interregionale bilaterali e multilaterali.
Partendo dai protocolli d'intesa, dai gemellaggi, dalle forme di partecipazione economica e tecnologica, le regioni europee, specie quelle di confine, producono un attivissimo scambio di beni, di servizi, di lavoro, di capitale, di coordinamento infrastrutturale e di trasporti, tutelando, nello stesso tempo i propri interessi di fronte ai governi centrali e agli organismi internazionali.
Molte di queste regioni, che per secoli hanno rappresentato realtà storico-territoriali organiche, sono state disunite dalle barriere degli stati nazionali e dai numerosi conflitti.
Pertanto, queste entità substatali hanno cercato collaborazione tra loro su varie questioni, creando delle importanti associazioni interregionali, quasi sempre a carattere transfrontaliero.
Tra le più rilevanti ricordiamo, ad esempio, l'ARGE ALP (Comunità di lavoro delle Alpi orientali), l'ARG ALPE ADRIA, la CONTRAO, che insieme con altre, hanno costituito l'Associazione delle regioni europee. Un'altra tipologia importante di associazioni e accordi tra regioni sono, poi, le "Euroregioni" regolate da un regime misto, pubblico e privato, come ad esempio l'EUROREGIO, nata nel 1965 fra enti territoriali tedeschi e olandesi.
Le questioni regionali, in particolare modo il processo di trasferimento di funzioni e poteri dallo Stato centrale agli istituti periferici (decentramento, federalismo, devolution…), sono processi politici che hanno attivato numerosi movimenti territoriali che riconducono queste istanze sotto l'egida della difesa e della riscoperta di un'identità.
Per regionalismi possiamo, quindi, intendere quei movimenti d'idee e di lotta politica che si richiamano all'identità di un territorio come fonte di elementi culturali primari come la lingua, l'etnia e di valori tradizionali. Questi ultimi trovano forme espressive nella mentalità, negli usi e costumi, nelle religioni, nella letteratura, nelle regole comuni, che nel loro insieme costituiscono una cultura.
In pratica "il regionalismo è un'ideologia specifica che traduce territorialità e cultura in un programma d'azione e come ogni altra ideologia politica, ha una gamma di fini politici e culturali da conseguire".
La riscoperta e la difesa di un'identità collettiva di una comunità, di un popolo, implicano per prima cosa la capacità dei membri di riconoscersi portatori di caratteri comuni, rielaborando in chiave mitico-simbolica la cultura tradizionale nelle sue varie espressioni, tutelando la propria identità dai processi di omologazione.
Se l'autonomia, nelle sue varie forme, intesa come controllo su un determinato territorio, rimane storicamente l'elemento comune di tutti questi movimenti, l'obiettivo di un maggiore sviluppo economico e sociale, unito al controllo delle risorse, rappresenta il fine politico più recente.
Dunque, sia le regioni marginali e depresse in cerca di riscatto storico e di emancipazione sia quelle ricche e gelose del loro benessere, poco propense alla ridistribuzione delle risorse – come la Lombardia e la Catalogna – guardano all'Europa delle Regioni come ad un modello più vantaggioso.
L'esplosione del regionalismo ha generato la nascita di numerosi partiti regionalisti che, oramai, sono presenti in tutta l'Unione europea, dilatando sempre più il fenomeno territoriale.
I nuovi partiti si sono aggiunti a quelli antichi e autorevoli come il Partido Nacionalista Vasco, la Svenska Foklpartiet, lo Scottish National Party, la Esquerra Republicana de Catalunya, il Plaid Cymru, il Südtiroler Volkspartei, Christlich-Soziale Union, il Partito Sardo d'Azione, l'Euskal Herritarroc (Batasuna), l'Union Valdôtaine, l'Unione di U Populu Corsu, il Vlaamsblok, fino alla più recente Lega Nord.
Molte di queste formazioni politiche rientrano nel più vasto Partito Democratico dei Popoli d'Europa (PDEP) collegato all'ALE (Alleanza Libera Europea), associazione nata nel 1981 con lo scopo di aggregare i partiti regionalisti.
Con la sola eccezione della Lega Nord, tutti i partiti presenti nelle associazioni sopra citate sono europeisti. Infatti, è proprio l'integrazione europea ad aver rafforzato il ruolo delle Regioni, consentendo loro di inserirsi nei processi decisionali dell'Unione. Tutte le formazioni politiche regionaliste hanno notevolmente accresciuto il loro consenso elettorale, favoriti dalla crisi del confronto ideologico e dall'affermarsi dell'identità territoriale come principale riferimento politico-culturale. La loro crescita ha determinato in molti casi lo smantellamento dei vecchi sistemi di partito ritenuti ormai obsoleti e antidemocratici, intercettando la grande voglia di partecipazione presente, oggi, nella società civile, e puntando al superamento delle tradizionali divisioni interne alla comunità di riferimento.
Rifiutando in molti casi di collocarsi sull'asse destra/sinistra, considerato fattore di divisione nell'ambito delle comunità, i partiti territoriali criticano le forme politiche tradizionali, rispecchiando in un certo qual modo l'eterogeneità della loro base di riferimento, e proponendo nuovi elementi d'aggregazione e di solidarietà.
La nuova politica troverà, dunque, nel regionalismo numerosi elementi di rinnovamento, dall'ideologia del territorio ai nuovi modelli di partecipazione e di autogoverno, dove i cittadini potranno verificare in modo diretto l'operato dei loro delegati, rafforzando in tal modo il senso di responsabilità, nell'ottica più generale di una comune identità.
Antonio Gentile
Destra o Sinistra: la maledizione divina della politica
Dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, con il crollo dell'universo comunista e con il superamento della "guerra fredda" e della politica dei due blocchi, ci si auspicava che la contrapposizione ideologica, spesso violenta, tra destra e sinistra fosse, ormai, retaggio del passato.
Si sperava, soprattutto, che dopo il superamento della modernizzazione fordista, la riduzione della lotta classista e l'affermazione del postmoderno, il contrasto politico assumesse i toni moderati e ragionevoli del confronto tra programmi diversi e diventasse il luogo privilegiato del nuovo protagonismo delle comunità.
Ma, purtroppo, questa speranza è andata persa. E così, in particolare in Italia, come per una maledizione divina, ogni individuo continua ad essere velenosamente etichettato di destra o di sinistra.
Sembra quasi che un cittadino, pur nato libero di pensare e di agire, non possa sfuggire a questa "classificazione politica", ormai diventata una specie d'appartenenza genetica.
Eppure, i concetti sostanziali della politica si sono fortemente svuotati dei loro principi storici e il limite tra i due "pensieri" politici è estremamente sottile. Se la destra storica italiana, caratterizzata da una forte componente sociale è praticamente sparita, ed è diventata sempre più subalterna al "padrone di Arcore" e all'interesse padano della Lega, la sinistra lontana anni luce dal suo patrimonio storico, si è lanciata anch'essa all'inseguimento del treno neoliberista, spesso tramando sottobanco con "l'avversario padrone", cui ha spianato la strada al potere.
La differenza tra sinistra e destra, certamente non sparirà e non sarà solo questione di polarità. Una certa diversificazione rimarrà circa il concetto d'uguaglianza: la sinistra favorisce una maggiora giustizia sociale ed uguaglianza (intesa come emancipazione), mentre la destra concepisce la società come inesorabilmente gerarchica. Ma la conseguenza del permanere di questa virulenta contrapposizione è una perenne tensione che s'instaura nel Paese e, il perpetuarsi di faide politiche e spartitorie, rende difficile o addirittura impossibile gestire l'interesse collettivo e rappresentare il bene pubblico al di sopra delle parti.
Sembra, dunque, giunto il momento in cui l'Italia, prendendo atto di questa schizofrenia del sistema nella quale è inserita, si ribelli e ridiventi soggetto libero ed autonomo dei propri destini. Aprendo sempre più ai valori di comunità, rivitalizzando le culture locali, riscoprendo le radici storiche comuni e reagendo ai processi di omologazione, di standardizzazione e di omogeneizzazione propri della globalizzazione.
Antonio Gentile
Il filo salvato
"Il destino dell'Italia e della sua unione dipende da come sapremo sottrarre la nostra identità allo scacco dello Stato che avrebbe dovuto rappresentarla e proteggerla.
Da come sapremo impedire ad un fallimento così grave – che ci appartiene, perché esprime il lato debole e oscuro del nostro passato – di trascinare con sé anche la parte migliore di noi, quella che è stata capace di imprese intellettuali e civili uniche nell'itinerario dell'Occidente, e forse dell'intera umanità. In altri termini: se riusciremo ad utilizzare ancora una volta in modo vantaggioso quell'insuperata asimmetria fra italiani e Italia, autentica croce della nostra storia.
L'idea, ripetuta fino a diventare un luogo comune, che il nostro compito sarebbe di ricostituire proprio adesso, con tanto ritardo e dopo tanti appuntamenti mancati, nel cuore di una crisi mondiale di quell'esperienza, una vera nazione – nel senso forte, storico, della parola – mi sembra completamente insensata: un anacronismo illogico. La riprova (se ve ne fosse bisogno) è che, al di là di qualche esercitazione retorica, questa prospettiva non riesce a mobilitare energie né pensieri. Bisogna rassegnarsi: quel treno è perduto, e per sempre."Quod vides perisse, perditum ducas": sarebbe ora.
Possiamo avere dei buoni governi (o cattivi, o soltanto mediocri); possiamo darci nuove regole costituzionali (migliori o peggiori di quelle avute finora); possiamo architettare una nuova legge elettorale, più conseguente o più compromissoria dell'attuale. Ma non è possibile condurre, clamorosamente fuori tempo, un'opera di fondazione istituzionale e d'educazione delle coscienze, che altri hanno compiuto secoli fa, in una congiuntura dove tutto cospirava a favore dell'impresa; mentre oggi faremmo fatica anche solo a contare i venti contrari.
Il corpo storico dello Stato italiano è irriformabile: troppe incrostazioni, detriti, incultura; e soprattutto una distanza troppo vasta fra le ragioni della sua struttura separata e del suo stremato legalismo, e quelle di una società sempre più esigente, di cittadini sempre più abituati a vivere in connessione col mondo, per sperare di colmarle. Nella situazione in cui siamo, sarebbe più facile liberarsi di una tale zavorra, che trasformarla.
E la questione è tutta qui: siamo sicuri che dovrà accompagnarci per sempre? Le tradizioni pesano, e costringono l'attenzione a ripetersi. Ma se si osserva senza pregiudizi, credo che oggi si stia profilando per l'Italia l'occasione di un salto di prospettiva: non più cercare di costruire una nazione all'altezza dei tempi, ma semplicemente, per dir così, oltrepassarla, aggirare la meta, e portare il nostro popolo - tutto intero – in una nuova dimensione del suo sviluppo.
È l'idea dell'Europa – se vi crediamo - a obbligarci a un viaggio mentale al di là dello stato nazione: un compito che non possiamo eludere, per quanto imponga esercizi difficili. Ma se cominciamo davvero, ci imbattiamo subito in una scoperta sorprendente: in questo ordine di pensieri noi italiani ci troviamo in un insperato vantaggio: perché, in un certo senso, lo abbiamo sempre coltivato. Per noi, in fondo, si tratta di un'abitudine. Siamo gli unici, in Europa, ad aver avuto come momento più alto della propria storia l'esperienza – diventata come impronta genetica – di una civiltà intrinsecamente pluricentrica, realizzata tutta al di fuori di ogni accentramento "nazionale".
È stato (in parte) già intuito: [l'Europa unita] non fa che riprendere e svolgere –dilatando in sistema un'antica traccia abbozzata solo per schegge – quel modello di equilibrio unitario, virtuoso e concorde fra Stati regionali che, fondandosi su radici ancora più remote, abbiamo visto animare progetti e speranze alla fine del nostro Quattrocento. Un insieme di piccole patrie, congiunte nella comune appartenenza ad un'identità più vasta, ricca di cultura e di memoria, che non schiaccia le individualità al suo interno (la contraddizione colta dal Guicciardini), ma le esalta, nel gioco all'interno delle autonomie e dei legami.
Vi è un filo prezioso, salvatosi nella nostra storia: l'attitudine ad elaborare un'identità e un carattere, al di fuori di quella gabbia statual-nazionale da noi prima mancata, poi non amata, ma che oggi in Europa dobbiamo tutti dimostrarci capaci di superare…
Ci salveremo se sapremo inventare uno spazio sempre maggiore per la nostra vocazione europea: un sentimento profondo, diffuso in modo omogeneo nel paese, eredità di un antico cosmopolitismo, che è fra gli elementi più belli delle tradizioni italiane. E insieme, se daremo respiro e dignità al riemergere del nostro particolarismo, segno di ritrovata sicurezza e benessere, non di smarrimento e di frantumazione, ove lo si strappi alle tentazioni di un micronazionalismo meschino, figlio di frustrazioni e paure recenti – connesse alla povertà del nostro Stato – e non alle intensità e alle aperture del nostro passato. Se avremo la forza di non interpretare le spinte alla diversificazione come un attentato all'unità, ma come la nascita di una sua nuova forma, finalmente adeguata alla realtà che meglio ci esprime."
Prof. Aldo Schiavone
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La Rivolta della Taranta: teoria di una rivoluzione
"Partiamo dal concetto che una rivoluzione culturale e sociale può, a buon diritto, definirsi tale solo quando la comunità dominata si presenta sulla scena della crisi come soggetto storico-sociale sostenuto da un proprio programma politico-economico. Quando le realtà subalterne si muovono invece per iniziativa delle fazioni che stanno al potere o che aspirano ad esso, mostrano tutta la loro palese impotenza."
Dunque, tutte le volte che la rivolta delle realtà oppresse e sfruttate non è alimentata da una vera coscienza della propria condizione, a spartirsi i dividendi di questo “disordine” sono i poteri dominanti interessati a mettere in discussione lo status quo per acquisire più potere ai danni dei gruppi concorrenti.
Se la sofferenza e il dolore di un popolo vanno ad esclusivo beneficio dei suoi dominatori, parlare di condizione democratica equivale ad una bestemmia. Così nel caso delle cosiddette “primavere arabe”, liquidate troppo rapidamente dal marketing politico-mediatico come rivoluzioni delle “masse diseredate”, in molti casi queste continuano ad essere strumento di una iniziativa politica-sociale-religiosa gestita dagli interessi delle élite dominanti nei paesi arabi. Ciò naturalmente non vuol dire indifferenza verso i processi sociali allargati che, anzi, determinano produzione di coscienza e organizzazione del dissenso.
L'acquisizione della consapevolezza del proprio ruolo di sfruttato è il vero momento di rottura. Nulla, infatti, appare più insopportabile al pensiero critico dello “schiavo contento” abituato a ricevere poco, senza riguardo. Scriveva Goethe nelle Affinità Elettive: ”Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo”. Come una bestia allevata in cattività, lo “schiavo contento” non nutre neanche il sospetto di vivere in una indigenza materiale e spirituale e che possa esistere per lui un mondo ricco e senza dominio. Accontentarsi di quello che si ha e del proprio stato è da sempre un'apologia del dominio sociale.
Bisogna invece volere tutto ciò che può renderci liberi e dignitosi. Sosteneva Hegel: “Il nostro essere essenziale non consiste nel dormire, nel campare, nel fare l'impiegato; ma nel non essere schiavo”. E per non essere tale le popolazioni dominate e colonizzate devono rovesciare lo schema del dominio.
Chi aspira all'acquisizione del potere politico, all'autonomia, alla libertà di scelta, e a mettere le mani sulle realtà materiali della società – dalle quali è stato estromesso -, deve per prima cosa capovolgere “l'ordine naturale” delle cose, deve cioè costituirsi in una forza dominante prima sul terreno politico e, poi, su quello economico. Dominare le proprie condizioni di esistenza, la propria vita, questo è il significato più profondo del concetto di libertà.
Il Mezzogiorno d'Italia non può più restare spettatore della propria segregazione, burattino animato dai suoi dissanguatori, gestito e pensato da altri. Dalla sua rivolta interiore, dal suo rigetto ad essere “schiavo contento”, quiescente e sottomesso, si determinerà la sua palingenesi.
Se la classe politica-partitocratica marcescente e rinnegata non rappresenta, ormai, neanche più se stessa ma, anzi, è lo strumento principale della condizione di sudditanza, il potere decisionale deve passare alla comunità civile, agli uomini e alle donne dell'appartenenza comune.
E' rivolta l'azione sensibilizzatrice ed illuminante delle centinaia di movimenti meridionalisti che progressivamente costruiscono le fondamenta del nuovo ordine civile, smantellando, nel contempo, i muri dell'oppressione preconcetta.
E' rivolta il diffondersi pandemico di pubblicazioni, di canti, di musiche, di iniziative identitarie che risvegliano e recuperano la linfa vitale della “razza silente”.
E' rivolta la rabbia fomentatrice dei “forconi”, degli studenti, della Rete, che rigettano la genuflessione alla regola dell'accettazione incontestabile.
Così come l'eccitazione tetanica della “Taranta” espelle simbolicamente dal corpo violato il veleno, così l'incontenibile frenesia degli oppressi darà nuova vita al “corpo ritrovato” della Comunità. E' questa la rivolta perenne.
“Essere vuol dire ribellarsi, vivere è rivoltarsi perennemente, ed ogni nostro respiro è un atto di rivolta, altrimenti noi non siamo, noi non esistiamo”.
Dunque, l'essenza della libertà e della dignità va ricercata nel possedere la consapevolezza del ruolo imposto di suddito e dell'annientamento della propria identità; va ricercata soprattutto nella capacità di controllare e gestire le proprie risorse e i propri destini.
I Meridionali sono vissuti nella convinzione crescente di essere schiavi di una dominazione fatale, così potente che sarebbe inutile metterla in discussione, futile analizzarla, assurdo opporvisi e delirante solo pensare di cambiarla.
Oggi, però, la rivendicazione territoriale e identitaria, soprattutto nel Sud, non può limitarsi all'aspetto storico-culturale: non avrebbe forza e futuro.
I grandi cambiamenti determinati dai processi globalizzanti e omologanti spingono tali rivendicazioni a collegarsi necessariamente ad altri fattori come quelli economico e sociale. Così come è avvenuto negli anni Sessanta-Settanta dove il rapporto centro-periferia fu collegato allo schema dello “sviluppo diseguale” e del “colonialismo interno”, quasi un manifesto delle regioni emarginate e sfruttate dal potere economico, così, oggi, le battaglie dei movimenti meridionalisti devono puntare a modificare il rapporto con lo stato centrale attraverso la sostituzione dei gruppi dirigenti e di potere che lo controllano.
Le rivendicazioni regionaliste devono, quindi, recepire le forti istanze di rinnovamento provenienti dalla società civile, desiderose di rigettare la concezione precaria della vita, fortemente contrarie alla crescente diseguaglianza sociale, e in cerca di legalità e maggiore rispetto ambientale.
L'obbiettivo fondamentale dell'attuale regionalismo meridionalista deve essere quello di fondere con programmi di lotta complessivi, istanze culturali e istanze di rinnovamento politico-sociale che si sviluppano tuttora in maniera parcellizzata, così da diventare il collante naturale dei diversi settori sociali e il vero fattore di trasformazione radicale di una società sempre più contrapposta e diseguale.
Antonio Gentile
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