L'ATTO D'ACCUSA DEI PM DI PALERMO
Prima della partenza in Guatemala c'era un ultimo atto che il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia doveva compiere, scrivere assieme agli altri magistrati del pool, Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, la memoria del percorso investigativo (depositata ieri) che ha portato i pm a chiedere il processo per sei uomini dello Stato e sei capimafia, insieme sullo stesso banco degli imputati e per cui il gip Morosini dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno.
Così in poco più di venti pagine, che riassumono 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti sono stati racchiusi quattro anni d'indagine. Viene quindi spiegato che il procedimento non ha per oggetto in senso stretto la trattativa in quanto nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato coinvolti.
Il quadro storico
L'analisi della Procura parte da quel che accadde nel 1989, analizzando la storia prima del crollo del muro di Berlino, dove “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Come era stato scritto, sempre dai pm di Palermo, nella grande inchiesta poi archiviata che prese il nome di “Sistemi Criminali” vengono messi in evidenza una serie di eventi, apparentemente lontani ma in realtà concatenati l'un l'altro.
La caduta del muro viene seguita “dall'eccesso di tassazione e l'utilizzazione distorta della spesa pubblica”, che provocò la “rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria” al Nord. Nel contesto vengono poi inserite le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua “inusuale collaborazione giudiziaria” contribuì alla “eliminazione politica” del ministro Martelli, “percepito come un ostacolo”. E' il momento della transazione dalla Prima alla Seconda Repubblica ed in questo complesso, quanto nebuloso, quadro di eventi Cosa nostra si inserisce in un piano di destabilizzazione devastante del quadro politico tradizionale.
Così viene messa in evidenza la “trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subito molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese”.
L'obiettivo
Nella loro memoria i pm evidenziano come la trattativa “non è stata limitata a singoli obiettivi 'tattici', come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall'altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l'Italia”. In particolare sono due le frasi che assumono un importante valore simbolico in questo contesto. La prima è quella di Salvatore Riina che spiega ai suoi soldati: “Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace”. L’altra è del boss Leoluca Bagarella: “In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle”. “L'obiettivo strategico – spiegano i pm - è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l'ingresso della mafia in politica, tout court”.
Così i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il “postino” del papello Cinà, rappresentano “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”.
Primo atto
Il primo passaggio chiave è rappresentato dall'omicidio dell'eurodeputato della Dc, emblema dei vecchi referenti politici delle cosche, all'indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa Nostra. E' in questo momento che secondo i pm scatta la prima fase di quella “scellerata trattativa” tra lo Stato e la mafia. E' il via ad una guerra i cui protagonisti sono “i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”. Un sistema violento quanto pratico per ricercare un nuovo soggetto col quale venire a patti.
Secondo la ricostruzione dei pm al tavolo delle trattative “sedevano” inizialmente “Salvatore Riina, all'epoca capo assoluto del sodalizio mafioso, mentre, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali dei Carabinieri ovvero il comandante del Ros, generale Antonio Subranni, il suo vice, colonnello Mario Mori, e il capitano Giuseppe De Donno, a loro volta investiti dal livello politico (in particolare dal senatore Calogero Mannino, all'epoca ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito Ciancimino – a sua volta in rapporti con Riina per il tramite di Antonino Cinà – nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista”. Così, secondo i pm, viene prospettata la minaccia “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri in un secondo momento, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.r) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”.
Cambio al vertice
I pm spiegano come nelle indagini compiute “è sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell'Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Del resto il quadro si era aggravato rispetto all'omicidio Lima in quanto aveva fatto seguito la strage di Capaci. “È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali. Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, percepito anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per essere politicamente eliminato (anche per effetto di un'inusuale collaborazione giudiziaria del capo della P2 Licio Gelli) più in là nel ’93, quando si tratta di ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di scena anche il capo del Dap Nicolò Amato, ritenuto inizialmente un possibile strumento utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo, ma poi diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su bianco (in una sua nota del 6 marzo 1993 in-dirizzata al neo-ministro Conso) che Parisi aveva espresso “riserve” sull’eccessiva durezza del 41 bis, a margine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del 12 febbraio 1993”.
Secondo atto
Nel 1993, durante il governo “tecnico” presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, la trattativa sembrò inizialmente non produrre gli esiti sperati e si generò il bisogno di dare una nuova scossa al dialogo. Così la mafia fa sentire la propria voce a suon di bombe con le stragi di Milano, Roma e Firenze. “Stragi che - scrivono i pm - questa volta produssero qualche frutto: l'allentamento dei 41 bis ai boss con la mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del carcere duro, costituì un segnale di disponibilità ad andare incontro ai desiderata di Cosa nostra, lanciando quel 'segnale di distensione', peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del Dap Capriotti indirizzava al Ministro della Giustizia Conso il 26 giugno del '93”. Ed è in questa momento che la trattativa arriva a toccare i più alti vertici istituzionali (accusati nella memoria della Procura di “amnesia collettiva”).
Nel reato commesso dai padrini - la violenza a Corpo politico dello Stato perpetrata con le bombe - concorrerebbero, secondo i magistrati, anche l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, il vicedirettore del Dap Francesco Di Maggio (entrambi morti) che, ''agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul 41 bis''.
La Procura scrive inoltre che l'allora Capo dello Stato “ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
Terzo atto
Si arriva così al 1994 quando, secondo il quadro ricostruito dalla Procura, la ricerca di Cosa nostra di un nuovo soggetto politico arriva al punto e il patto si salda.
Infatti l'allentamento sul fronte carcerario, con alcune significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss mafiosi di assoluto rango, non poteva esaurire l'iter della trattativa. “Ed è per questa ragione che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale 'trattare', all'ultima minaccia portata al neo-Governo Berlusconi tramite il canale Bagarella-Brusca-Mangano-Dell’Utri, seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia”. “Si completò, in tal modo - concludono i pm - il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell'Utri-Berlusconi, come emerge dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori Spatuzza, Brusca e Giuffrè”.
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell'Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) “sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia” in quanto avrebbero svolto “il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un'estorsione. Con l'aggravante che il soggetto “estorto” è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è il condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri”. Su Mancino e Conso, accusano i pm, “si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza”. Il primo sulla sua nomina a ministro dell'Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti “41 bis” nell'autunno 1993. Tuttavia Conso, con l’allora Direttore del Dap Adalberto Capriotti e l’onorevole Giuseppe Gargani sono tuttora “soltanto” indagati per false dichiarazioni al pm, esclusivamente in ossequio alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento principale.
La testimonianza di Ciancimino jr fondamentale per rompere il silenzio
Un ruolo chiave nella vicenda lo ha sicuramente avuto il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite fra il padre e Bernardo Provenzano. Nonostante sia imputato anche di calunnia aggravata, e per questo definito anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca” viene indicato come “testimone privilegiato dei fatti” le cui testimonianze hanno “consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei contatti intercorsi fra i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle Istituzioni”. Inoltre gli viene riconosciuto il merito di avere risvegliato la memoria assopita di tanti “testimoni eccellenti” e alti esponenti delle Istituzioni del tempo, i quali, “solo dopo esser venuti a conoscenza delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, sono stati finalmente indotti a riferire, per la prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite nel mosaico probatorio, evidenziavano in modo più chiaro uomini, protagonisti e complici della trattativa”.
Una “forma di grave amnesia collettiva”, durata vent'anni, “che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile '92-'93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano l'esistenza di una trattativa ed il connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l'ordine pubblico e per la nostra democrazia”.
L'Altro Sud ringrazia Aaron Pettinari per la sua validissima analisi.
LA MAFIA NON E' INVINCIBILE