LA RIVOLTA DELLA TARANTA, TEORIA DI UNA RIVOLUZIONE
di Antonio Gentile
Partiamo dal concetto che una rivoluzione culturale e sociale può, a buon diritto, definirsi tale solo quando la comunità dominata si presenta sulla scena della crisi come soggetto storico-sociale sostenuto da un proprio programma politico-economico. Quando le realtà subalterne si muovono invece per iniziativa delle fazioni che stanno al potere o che aspirano ad esso, mostrano tutta la loro palese impotenza.
Dunque, tutte le volte che la rivolta delle realtà oppresse e sfruttate non è alimentata da una vera coscienza della propria condizione, a spartirsi i dividendi di questo “disordine” sono i poteri dominanti interessati a mettere in discussione lo status quo per acquisire più potere ai danni dei gruppi concorrenti.
Se la sofferenza e il dolore di un popolo vanno ad esclusivo beneficio dei suoi dominatori, parlare di condizione democratica equivale ad una bestemmia. Così, nel caso delle cosiddette “primavere arabe”, liquidate troppo rapidamente dal marketing politico-mediatico come rivoluzioni delle “masse diseredate”, in molti casi queste sono state strumento di una iniziativa politica-sociale-religiosa gestita dagli interessi delle élite dominanti nei paesi arabi. Ciò naturalmente non vuol dire indifferenza verso i processi sociali allargati che, anzi, determinano produzione di coscienza e organizzazione del dissenso.
L'acquisizione della consapevolezza del proprio ruolo di sfruttato è il vero momento di rottura. Nulla, infatti, appare più insopportabile al pensiero critico dello “schiavo contento” abituato a ricevere poco, senza riguardo. Scriveva Goethe nelle Affinità Elettive: ”Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo”. Come una bestia allevata in cattività, lo “schiavo contento” non nutre neanche il sospetto di vivere in una indigenza materiale e spirituale e che possa esistere per lui un mondo ricco e senza dominio. Accontentarsi di quello che si ha e del proprio stato è da sempre un'apologia del dominio sociale.
Bisogna invece volere tutto ciò che può renderci liberi e dignitosi. Sosteneva Hegel: “Il nostro essere essenziale non consiste nel dormire, nel campare, nel fare l'impiegato; ma nel non essere schiavo”. E per non essere tale le popolazioni dominate e colonizzate devono rovesciare lo schema del dominio.
Chi aspira all'acquisizione del potere politico, all'autonomia, alla libertà di scelta, e a mettere le mani sulle realtà materiali della società – dalle quali è stato estromesso -, deve per prima cosa capovolgere “l'ordine naturale” delle cose, deve cioè costituirsi in una forza dominante prima sul terreno politico e, poi, su quello economico. Dominare le proprie condizioni di esistenza, la propria vita, questo è il significato più profondo del concetto di libertà.
Il Mezzogiorno d'Italia non può più restare spettatore della propria segregazione, burattino animato dai suoi dissanguatori, gestito e pensato da altri. Dalla sua rivolta interiore, dal suo rigetto ad essere “schiavo contento”, quiescente e sottomesso, si determinerà la sua palingenesi.
Se la classe politica-partitocratica marcescente e rinnegata non rappresenta, ormai, neanche più se stessa ma, anzi, è lo strumento principale della condizione di sudditanza, il potere decisionale deve passare alla comunità civile, agli uomini e alle donne dell'appartenenza comune.
E' rivolta l'azione sensibilizzatrice ed illuminante delle centinaia di movimenti meridionalisti che progressivamente costruiscono le fondamenta del nuovo ordine civile, smantellando, nel contempo, i muri dell'oppressione preconcetta.
E' rivolta il diffondersi pandemico di pubblicazioni, di canti, di musiche, di iniziative identitarie che risvegliano e recuperano la linfa vitale della “razza silente”.
E' rivolta la rabbia fomentatrice dei “forconi”, degli studenti, della Rete, che rigettano la genuflessione alla regola dell'accettazione incontestabile.
Così come l'eccitazione tetanica della “Taranta” espelle simbolicamente dal corpo violato il veleno, così l'incontenibile frenesia degli oppressi darà nuova vita al “corpo ritrovato” della Comunità. E' questa la rivolta perenne.
“Essere vuol dire ribellarsi, vivere è rivoltarsi perennemente, ed ogni nostro respiro è un atto di rivolta, altrimenti noi non siamo, noi non esistiamo”.
Dunque, l'essenza della libertà e della dignità va ricercata nel possedere la consapevolezza del ruolo imposto di suddito e dell'annientamento della propria identità; va ricercata soprattutto nella capacità di controllare e gestire le proprie risorse e i propri destini.
I Meridionali sono vissuti nella convinzione crescente di essere schiavi di una dominazione fatale, così potente che sarebbe inutile metterla in discussione, futile analizzarla, assurdo opporvisi e delirante solo pensare di cambiarla.
Oggi, però, la rivendicazione territoriale e identitaria, soprattutto nel Sud, non può limitarsi all'aspetto storico-culturale: non avrebbe forza e futuro.
I grandi cambiamenti determinati dai processi globalizzanti e omologanti spingono tali rivendicazioni a collegarsi necessariamente ad altri fattori come quelli economico e sociale. Così come è avvenuto negli anni Sessanta-Settanta dove il rapporto centro-periferia fu collegato allo schema dello “sviluppo diseguale” e del “colonialismo interno”, quasi un manifesto delle regioni emarginate e sfruttate dal potere economico, così, oggi, le battaglie dei movimenti meridionalisti devono puntare a modificare il rapporto con lo stato centrale attraverso la sostituzione dei gruppi dirigenti e di potere che lo controllano.
Le rivendicazioni regionaliste devono, quindi, recepire le forti istanze di rinnovamento provenienti dalla società civile, desiderose di rigettare la concezione precaria della vita, fortemente contrarie alla crescente diseguaglianza sociale, e in cerca di legalità e maggiore rispetto ambientale.
L'obbiettivo fondamentale dell'attuale regionalismo meridionalista deve essere quello di fondere con programmi di lotta complessivi, istanze culturali e istanze di rinnovamento politico-sociale che si sviluppano tuttora in maniera parcellizzata, così da diventare il collante naturale dei diversi settori sociali e il vero fattore di trasformazione radicale di una società sempre più contrapposta e diseguale.
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